Alessandro Dall’Orto, Libero 28/11/2010, 28 novembre 2010
HO CORSO PER TUTTA LA VITA MA MI RICORDANO SOLO PER LA MOVIOLA
Carlo Sassi, che ospitalità. Non c’era bisogno di venire fino al cancello.
«Beh, l’importante è che non abbia fretta. Sa, cammino un po’ lentamente».
E non è questione di moviola...
«Ahahaha. No, è che lo scorso 6 ottobre mi sono operato a un ginocchio». Come un calciatore! «L’intervento l’ha realizzato a Pavia il professor Benazzo, consulente ortopedico dell’Inter. Sto facendo riabilitazione e ho appena mollato le stampelle».
È già in gran forma.
«Sì e non vedo l’ora di riprendere a pilotare. Pi-lo-ta-re? Scusi, in che senso? «Sono appassionato di rally. Ogni anno con mia figlia partecipo alla gara tra giornalisti. L’ultima volta siamo arrivati terzi su 62 equipaggi». Velocissimo! Quindi frequenta ancora l’ambiente della stampa...
«Solo in auto. Con la tv ho chiuso nel 2001».
Perché?
«Per non diventare patetico. A una certa età bisogna avere il coraggio di smettere, farsi da parte. Dare spazio ai giovani. Per non fare la fine di certa gente che si vede in video. Allucinante... Meglio fare il pensionato. Sono felice così».
Giornata tipo?
«Leggo molto. E appena posso viaggio con mia moglie. La terza moglie». Urca, complimenti. «Era la mia prima fidanzatina, io 25 anni e lei 17. Ci siamo ritrovati e rimessi insieme nel 1987».
Figli?
«Paola, ha 35 anni e fa l’hostess a terra. È sempre in giro per il mondo». È nonno? «No e non mi manca un nipotino. Sinceramente, me ne frega poco».
Sassi, ma la tv le manca almeno un pochino? «Per niente. Quando qualcuno mi telefona per proporre ospitate, risponde mia moglie. E sa già che dire...».
La gente la riconosce ancora?
«Spesso, quando capisco che mi stanno fissando, cambio strada. Non per maleducazione, ma perché sono timido. Schivo».
Domanda tipica se la bloccano? «“Sassi, dove è finito? Nessuno tratta più il calcio come faceva lei”».
Già, il mondo del pallone. Quello le manca? «Lo seguo poco. Un po’ mi hanauseato, non amo particolarmente
l’ambiente che gira attorno alle partite».
Mourinho le piace?
«Molto simpatico, forse un po’ troppo egocentrico. Almeno, però, ha il coraggio di dire quello che pensa. Come, ai tempi, facevano Platini e Boniek».
Squadre che la divertono?
«Il Brasile, il Barcellona. In Italia Milan e Roma». Sempre tifoso della Cremonese? «Da quando, un giorno di tantissimi anni fa, conobbi il presidente Luzzara. E nacque un feeling particolare».
Ma lei è di Cremona?
«Noo! Nato a Milano, vissuto sempre a Milano. Milanese doc». Carlo, ora però sia sincero. Tra Milan e Inter chi sceglie?
«Da ragazzo ero tifoso dell’Inter».
Riavvolgiamo il nastro della sua vita, allora. «Nasco alla Clinica San Giuseppe, zona San Vittore, il primo ottobre 1929. Sono figlio unico, papà è dirigente della Pirelli, mamma casalinga».
Bambino timido?
«Molto. Ma anche oggi, a 81 anni compiuti, se qualcuno mi riconosce divento rosso!».
Scuole?
«Liceo scientifico e poi Bocconi».
Quando il contatto con il calcio?
«Papà mi porta a vedere Arezzo-Inter e mi appassiono ai nerazzurri. Nel frattempo gioco e sono centravanti della squadra del Liceo, attaccante rapido. Nel ’46, quando ho 17 anni, mi chiamano per un provino all’Inter all’Arena. Mi presento e sono così emozionato che entro in campo con le scarpe da calcio, pantaloncini, maglione e camicia. Capito? Mi sono dimenticato di cambiarmi la parte alta!».
Come va il provino?
«Siamo io, Pistorello, che poi andrà al Milan, e Titta Rota, che poi andrà all’Atalanta. Palleggio, faccio qualche giochetto e restano a bocca aperta. Però non c’è tempo per farmi giocare e chiedono di tornare il mercoledì successivo. Per problemi di scuola non riesco ad andarci e nel frattempo mi cerca l’Angerese, serie C. Parlo con i dirigenti, sono ingenuo e firmo un contratto a vita».
Poi?
«Qualche partita e smetto, perché devo studiare e il viaggio è troppo lungo». Basta calcio? «Mi diverto con gli amici in piazza. Finché un giorno arriva il vigile, pensiamo che ci dia la multa e invece mi chiede di andare nella sua squadretta di prima divisione. Gioco per lui tre anni, ma poi mi faccio male a un ginocchio. Ancora un anno tra i dilettanti alla Gaviratese e poi basta».
E si dedica al giornalismo.
«Nooo! Per 9 anni lavoro in banca».
Cioè?
«Trovo un posto al Banco di Roma. Poi, un giorno al bar, un amico mi presenta la moglie che lavora in Rai. Spiega che stanno cercando gente nuova e mi convince. Così nel ’57 inizio a lavorare a cachet. Il capo dello sport è Carlo Bacarelli, che mi chiede una cartella di presentazione dell’amichevole Italia-Irlanda del Nord. Il pezzo va bene e inizio a fare il giornalista. Dopo tre anni e mezzo mi assumeranno».
Segue subito gli eventi più importanti.
«Otto Olimpiadi ed è un’esperienza meravigliosa: il mio sport preferito da sempre è l’atletica; il calcio viene al secondo posto. La prima Olimpiade è quella di Roma ’60. Poi Tokio in collegamento dall’Italia. A Messico ’68 invece ci vado di persona, unico inviato Rai per l’Eurovisione. E assisto a un evento storico». Cioè?
«Gara di salto in alto, tocca a un certo Dick Fosbury, statunitense. Prende la rincorsa, stacca e restiamo a bocca aperta: anziché saltare di pancia, fa un movimento innovativo fino a quel momento: affronta l’asticella di schiena».
Il famoso salto Fosbury!
«Già, incredibile! Ci guardiamo tutti stupiti: “Che ha fatto?”. “Come ha fatto?”». Poi Monaco ’72 da Milano, Montreal ’76, Mosca ’80, Los Angeles ’84 e Seul ’88. «Leultimecomecoordinatoredellasquadra Rai».
Si occupa anche di Mondiali di calcio.
«Inghilterra ’66 e Germania Ovest ’74. Poi ho detto basta: la direzione dello sport era a Roma e l’Italia la seguivano sempre i romani...».
Un ricordo divertente come cronista della maglia azzurra? «Negli anni di Valcareggi ct, spesso mi siedo in panchina. A Berlino nel ’69, per Germania Est-Italia 2-2, sono io ad accorgermi che i tedeschi hanno le maglie sbagliate: stanno giocando con due numeri 4!». Carlo Sassi, lei ha fatto di tutto. Ma la si ricorda soprattutto per la moviola.
«È un’etichetta, un timbro. Certamente riduttivo rispetto alla mia carriera». Il ralenti nasce il 22 ottobre 1967, InterMilan 1-1.
«Tornati da San Siro, io e il tecnico Heron Vitaletti ci accorgiamo, guardando il filmato, che la palla del pareggio di Rivera, rimbalzando a terra dopo aver colpito la traversa, solleva uno spruzzo di gesso. Se c’è polvere ha toccato la linea bianca, quindi non è entrata del tutto. Questo non è gol ci diciamo e sarebbe bello farlo vedere. Le immagini vengono mandate in onda il giorno dopo in “Telesport”: tre fotogrammi per riprendere bene l’istante preciso».
La moviola vera e propria, però, arriva pochi anni dopo.
«La svolta è alla fine degli anni 70, quando la pellicola viene sostituita dal nastro videomagnetico e i tempi diventano più veloci».
Prima come funzionava?
«Il lavoro di preparazione era molto lento. La bobina con il filmato di una partita doveva essere sviluppata e stampata e ci voleva un’ora e mezzo di tempo. Poi il pezzetto di pellicola con le immagini che servivano per la moviola veniva riversato a Milano su monitor, ripreso da una cinepresa, di nuovo sviluppato e stampato: passava almeno un’altra ora».
Urca, tempi lunghissimi.
«Spesso Vitaletti e io eravamo ancora al montaggio e già sentivamo partire la sigla d’avvio della Domenica Sportiva. Il cambio di tecnologia invece ha portato qualità di immagini e riduzione di tempi di lavorazione».
Sassi, la guarda ancora la moviola?
«No, ora è cambiata. Era nata come curiosità, come la bella foto a corredare un articolo sul giornale. Un bel gesto atletico, un bel gesto di sportività: non doveva ridursi al rigore dato o non dato. Invece si è trasformata in un giudizio sugli arbitri. A loro comunque un aiuto l’ha dato». Quale?
«Hanno capito che più erano vicini all’azione, minore era il rischio di sbagliare. E anche grazie alla moviola hanno mi-
gliorato la preparazione fisica: ai miei tempi i direttori di gara avevano la pancetta...». Da quest’anno la Rai ha spento la moviola.
«Una fesseria. Non si possono vedere tutte le partite sulla tv pubblica e mi pare curioso che nel momento in cui tutti vogliono la moviola in campo, si decida di toglierla. Un autogol, che favorisce altre emittenti. Ci sono degli interessi evidentemente».
Sassi, torniamo ai suoi tempi. Qualche curiosità. I più grandi tuffatori di allora? «Amarildo e Chiarugi». I più grandi picchiatori?
«Rosato. Ma lui, come diceva Altafini, almeno era un bel ragazzo! Aveva un aspetto dolce, viso angelico. Poi, in campo, si trasformava».
C’è mai stato un momento in cui ha avuto dubbi sull’utilità della moviola? «Calcioscommesse del 1980, gare truccate, partite vendute. Vado dal direttore De Martino e gli dico che basta, sono stufo e non voglio più fare la moviola: stiamo a controllare i dettagli di ogni azione e poi scopriamo che i risultati sono combinati. Alla fine mi convincerà a continuare». Società più permalose?
«Beh...».
Via, sono passati tanti anni.
«La Juve. In quel periodo c’era sempre di mezzo Brio: era alto e giocava con i gomiti larghi. “Ce l’avete con noi”, ripeteva Boniperti. E per qualche tempo i bianconeri hanno disertato la “Domenica Sportiva”. Ma Rozzi, quella volta...».
Racconti, dài.
«Vicenza-Ascoli, un bianconero subisce fallo ma io spiego che l’arbitro è coperto. Torno in studio e Pizzul è al telefono con Rozzi. Me lo passa e il presidente urla. Lo fermo: “Alt. È inutile che alzi la voce con me solo perché ha intorno qualcuno cui vuol dimostrare che protesta. I casi sono due: o non ha capito cosa ho detto alla moviola, e mi spiace. Oppure, se ha capito, è un mascalzone. E metto giù: tu-tutu-tu».
Che caratterino. Conseguenze?
«Mai più sentito».
Sassi, lei lavora alla Domenica Sportiva dal 1958 al 1991, conoscendo giornalisti e personaggi incredibili. Raccontiamone qualcuno. Si parte da Tito Stagno: ops, perché quella smorfia?
«Punto dolente, rapporto difficile. Su alcune vedute non siamo mai andati molto d’accordo. Il suo grande merito è stato quello di introdurre la musica nei servizi di calcio. Però avrebbe voluto tutti i presentatori alti, biondi e con gli occhi azzurri: questo non l’ho mai condiviso». Beppe Viola.
«Un fratello minore, giornalista di altra categoria, capace di frasi e commenti meravigliosi come “Difesa schierata a presepe” o, dopo un gol fallito clamorosamente, “Calloni sventa la minaccia”».
Morirà a soli 43 anni il 17 ottobre 1982.
«È domenica sera e torna da San Siro dopo Inter-Napoli. Viene nel mio ufficio, è infastidito dal fatto di non essere riuscito a intervistare Ferlaino. È seduto, quando improvvisamente si sente male e inizia a rantolare. Chiamo Eugenio, segretario di redazione, dico di telefonare alla Croce rossa. Beppe si riprende, alza la testa. Chiede: “Cosa è successo?”. E torna a rantolare. Va in coma irreversibile e non ci sarà più nulla da fare. Toccherà a me avvisare la moglie. Momento straziante». Gianni Brera.
«Altro fuoriclasse. Con lui ho avuto anche discussioni decise, avevamo un’idea differente del calcio. Lui sosteneva che noi italiani potevamo essere solo dei velocisti, io dicevo che sapevamo giocare. E con il Milan di Sacchi ho avuto ragione io: ogni volta che glielo rinfacciavo si arrabbiava». Sassi, risposta d’istinto. Differenza tra Viola e Brera?
«Beppe maestro di ironia. A Gianni piaceva molto fare il tecnico». Sandro Ciotti. «Rapporto bellissimo. Persona generosa, molto preparata».
Bruno Pizzul.
«Non gliel’ho mai detto. Quando lo mandarono ai Mondiali di Messico gli inviai un telegramma: “Sei il numero uno”. E ai tempi c’erano Carosio e Martellini...». Nel 1991 se ne va dalla Domenica Sportiva. Perché?
«Divergenze con Tito Stagno».
E che fa?
«Rischio di morire. Per fortuna mia moglie mi salva la vita». Cioè? «Torna dopo un esame medico e mi porta la richiesta di un check-up. Io, che non ho mai avuto niente, sono perplesso. Ma perché? Spiega che è questione di prevenzione e mi convince».