Fabio Martini, La Stampa 28/11/2010, 28 novembre 2010
Nel corso del tempo, ogni tanto, arrivano le giornate indimenticabili, quelle che trasmettono a chi le vive il senso di stare dentro un tornante della storia
Nel corso del tempo, ogni tanto, arrivano le giornate indimenticabili, quelle che trasmettono a chi le vive il senso di stare dentro un tornante della storia. Una di queste giornate è il 12 maggio del 1974: in piazza Navona, a Roma, i difensori del divorzio festeggiano la vittoria nel referendum, l’inizio della fine della Dc, fino a quel momento l’inossidabile partito-Stato. A qualche chilometro di distanza, accade qualcosa di diverso, ma che riconsegna il senso di un altro passaggio d’epoca: nello stadio Olimpico, la Lazio batte il Foggia per uno a zero e conquista il suo primo scudetto, che è anche il primo nella storia della Repubblica vinto da una squadra al di sotto dell’Arno. E’ la vittoria di una squadra di “pazzi”, giocatori d’azzardo, pistoleri, parà, simpatizzanti neofascisti. Una festa macchiata, si fa per dire, da un incidente al quale pochi fanno caso: a dieci minuti dal rigore decisivo tirato da Giorgio Chinaglia, Luigi Martini, il terzino sinistro, si rompe la clavicola e ascolta il boato del gol vincente, disteso su un lettino, «con un dolore allucinante, che non mi faceva respirare». Piccolo incidente, ma simbolicamente premonitore: dal giorno della conquista di quello scudetto, su tanti di quei vincitori inizia ad abbattersi una catena di disavventure - morti violente, malattie, arresti - che ha avuto l’ennesima replica due giorni fa, quando si è saputo che proprio Martini (diventato presidente dell’Enav), è indagato nell’ambito dell’inchiesta sugli appalti assegnati dall’Ente nazionale assistenza al volo. Naturalmente i capi di accusa potrebbero rivelarsi caduchi, ma la “maledizione” caduta su quella Lazio è già storia. Era una squadra messa su per caso, quella che vinse lo scudetto nel radioso maggio del 1974. Divisa per “bande”, con due spogliatoi, entrambi inaccessibili agli “altri”, partitelle durante la settimana che duravano fino a notte e potevano finire a calci e pugni. E quasi tutti quei giocatori giravano con la pistola nella fondina, sparavano ai lampioni e si scambiavano scherzi feroci. Come quella volta che Sergio Petrelli, detto “er cicogna”, vuole punire un compagno, Giacomo La Rosa, colpevole di non parlare mai. Entra nella sua stanza e urlando «Vediamo se sei da Lazio!», gli spara con la pistola in mezzo alle gambe. La Rosa non viene colpito, ma resterà a letto per una settimana con 40 di febbre. Chi invece muore prima del tempo è il più dolce della compagnia, l’allenatore Tommaso Maestrelli. Da giovane lo chiamavano «carta velina», ma la sapienza con la quale “Tom” aveva portato allo scudetto quella banda di irregolari gli aveva attirato l’attenzione di un intenditore come l’Avvocato Agnelli. Un giorno, era il marzo 1975, negli spogliatoi di Bologna, Maestrelli dice: «Sento freddo alla pancia». Il dottor Ziaco: «Solo alla pancia?». E Tom: «Sì e mi fa male». Tumore al fegato. Ventuno mesi più tardi, la morte, a 54 anni. Il giorno del funerale la bara viene portata a spalle da Luciano Re Cecconi, un biondo che da ragazzo nell’hinterland milanese ha fatto il calzolaio, l’elettricista, il fruttivendolo e nella Lazio era il corridore del centrocampo. Trascorrono 47 giorni e il fato colpisce anche lui. Entra, assieme a due amici, dentro una gioielleria. Non sa che il proprietario ha subito un assalto armato un anno prima e una volta dentro, esclama: «Fermi tutti, è una rapina». Il gioielliere spara al petto. «Cecco» fa in tempo a dire: «Era solo uno scherzo...». Luciano aveva 28 anni. Fuori dal negozio, proprio in quel momento, stanno tornando a casa Massimo e Maurizio Maestrelli, i due figli gemelli del carissimo “Tom”. Mario Frustalupi era il regista della squadra. Figlio di un boscaiolo di Orvieto, brevilineo e piedi raffinati, “Frusta” è un marziano in quella Lazio: capelli lunghi, basettoni, di famiglia socialista, non ama le pistole come i suoi compagni. Sedici anni dopo il tricolore - era il 1990 - mentre torna a casa, la sua Lancia Thema viene travolta da una Golf. Al momento del botto fatale, “Frusta” aveva 48 anni. Per gli “eroi” del 1974 c’è anche una “maledizione” giudiziaria. Giorgione Chinaglia il bomber, figlio di un emigrante che lavorava in fonderia, mercuriale e generoso, da qualche anno è latitante, imputato in un procedimento nel quale si immaginava che il clan dei Casalesi avesse tentato la scalata della Lazio. Pino Wilson, laureatosi in Giurisprudenza, finisce in carcere per la storia del calcio-scommesse e poi subisce una condanna, in primo grado, per bancarotta fraudolenta. Anche il portiere Felice Pulici è laureato in Giurisprudenza e anche lui ha avuto un piccolo contrattempo: un processo con l’accusa di falso ideologico per il passaporto di Sebastian Veron. Eppure, tra i ragazzi del 1974 circola una maledizione più malinconica, quella che Petrelli ha confessato a Guy Chiappaventi nel bel libro “Pistole e palloni”: «Nel 2000, quando la Lazio vinse il secondo scudetto, accanto alla felicità, provai un velo di tristezza: io e gli altri del 1974 non eravamo più gli unici».