Marta Dassù, La Stampa 28/11/2010, 28 novembre 2010
ARTICOLO SULLA COREA DI MARTA DASSU’
La sfida militare della Corea del Nord è una sfida agli Stati Uniti e non solo a Seul. Per quasi venti anni si è trattato di una sfida nucleare, che nessuno dei presidenti americani coinvolti - Bill Clinton, G.W. Bush, Barack Obama - è riuscito a fermare. Né i tentativi di apertura diplomatica né sanzioni dure hanno mai funzionato.
Oggi, la sfida diventa convenzionale: un bombardamento vecchio stile su un’isola del Mar Giallo, legato a controversie sul confine marittimo che durano dall’armistizio del 1953.
Il problema è che questo tipo di provocazione militare può facilmente sfuggire di mano. Il rischio di una guerra fra le due Coree resta abbastanza remoto: è uno scenario distruttivo per entrambe.
Ma una escalation non può essere esclusa. Con le sue mosse militari, infatti, il regime di Pyongyang mette in gioco la credibilità della garanzia americana agli alleati asiatici (l’invio di una portaerei è una risposta simbolica ma obbligata da parte di Washington); spinge la Corea del Sud a decidere misure più rapide di reazione; sottopone a dura prova il rapporto fra Washington e Pechino.
È sempre bene ricordare che l’Asia orientale non è un posto qualsiasi, per la sicurezza internazionale: la situazione asiatica, sostiene da tempo Henry Kissinger, ricorda quella europea degli inizi del secolo scorso. Nel senso che esistono, e persistono, gli ingredienti di possibili conflitti nazionali. La vecchia gerarchia di potenza è in crisi (come indica il declino relativo del Giappone); mentre il grande risveglio della Cina esercita - almeno per ora - un impatto ambiguo: spinge verso una integrazione economica molto più stretta che in passato (si comincia a discutere di un Fondo monetario asiatico), ma non determina accordi di sicurezza. Anzi, la preoccupazione per le scelte di Pechino è in aumento. Vista da Tokyo, da Seul o da Hanoi, la Cina di oggi sembra più assertiva di quanto sia mai stata dall’avvio delle riforme economiche. Quando la linea ufficiale, e la politica estera di fatto, era quella del «basso profilo».
Dinamismo economico ma anche fragilità politica; nazionalismo in crescita; conflitti congelati e sempre pronti ad esplodere: questa la situazione di una regione che, come europei, vediamo sempre e quasi esclusivamente in termini commerciali. Ma che per l’America - potenza «Pacifica» da almeno un secolo - è uno dei punti caldi della sicurezza globale.
Questa asimmetria spiega perché, di fronte a una crisi come quella coreana, l’Europa sia irrilevante. Nonostante l’approvazione del nuovo concetto strategico della Nato, la realtà è che continua ad esistere, fra le percezioni di sicurezza di Europa e Stati Uniti, una notevole differenza. L’Europa tende ancora a pensarsi come un attore regionale, non globale. E tutto sommato ritiene che le guerre tradizionali siano cosa del passato. Non è, purtroppo, così. La conseguenza è molto semplice: in Asia orientale l’Europa non esiste, come attore di sicurezza. Esiste l’America, con la sua presenza navale e che tiene schierati in Corea trentamila soldati; esistono gli alleati storici degli Stati Uniti, che oscillano da qualche anno fra nuove richieste di rassicurazione (a Washington) e nuove ambizioni a diventare più autonomi (da Washington); esiste la Cina, ancora concentrata sulla crescita economica interna, con i suoi rischi (per esempio l’inflazione), ma già impegnata a rafforzare gli strumenti (militari e politici) di affermazione regionale; e in parte continua a esistere la Russia. L’Europa ha per definizione una politica mercantile, verso l’Asia orientale: posizione che può avere anche i suoi vantaggi ma che non sarà sostenibile all’infinito. E che intanto lascia spazio, nel bene o nel male, al dualismo Washington-Pechino.
Non ci sarà soluzione possibile, ai problemi di sicurezza dell’Asia orientale, senza accordo fra Cina e Stati Uniti: un accordo che la crisi coreana, dopo la crisi finanziaria, rende più difficile. Tuttavia, la provocazione di Pyongyang offre anche, a un mese dal viaggio del presidente cinese Hu Jintao negli Stati Uniti, la possibilità di allargare l’agenda. La speranza, insomma, è che la consapevolezza del rischio coreano aumenti i margini per un qualche tipo di trade-off. La condizione, sul lato americano, è che Washington riesca a combinare la rassicurazione verso Seul con un’apertura seria a Pechino: e seria significa che gli Stati Uniti dovranno anche concedere qualcosa. Sul lato cinese, la condizione è che una leadership pragmatica decida di assumersi finalmente delle responsabilità positive. Negli ultimi due decenni, Pechino ha sempre preferito lo status quo, nella penisola coreana: perché ciò che teme veramente è un collasso del regime (con l’ondata migratoria che si rovescerebbe verso il confine cinese) e perché una Corea riunificata alla tedesca, alleata degli Stati Uniti, sposterebbe gli equilibri regionali a svantaggio della Cina. Ma anche per Pechino, si tratta di prendere atto della realtà: la sua capacità di influenzare un regime chiuso, bellicoso e intento a dotarsi di armi nucleari, diminuisce; mentre aumentano i costi di una relazione pericolosa.
Fino al 2008, i leader cinesi pensavano di avere ancora del tempo, prima di dovere fare la loro parte (e non solo i propri interessi): la crisi economica prima, la crisi nord-coreana oggi, stanno bruciando le tappe. Le tappe, per Obama, si stanno quasi esaurendo: motivi sufficienti per tentare un accordo essenziale per gli equilibri del secolo. L’ultima provocazione di Pyongyang potrebbe avere l’effetto opposto a quello desiderato dai generali coreani.