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 2010  novembre 27 Sabato calendario

TV L’ELETTRODOMESTICO DIVENTATO GRANDE FRATELLO

In quell’Italia in bianco nero di cinquantasei anni fa… Prego, accomodatevi nel tinello buono, schiacciate il bottone, girate la manopola e, se serve, date un’avvitata al «pirulino» che, magicamente, rende più definita l’immagine. Ora sedetevi in poltrona e fatevi portare lontano dal nuovo «mostro» che marcherà la vita di tutte le generazioni a venire. «Miei cari amici vicini e lontani, buonasera ovunque voi siate», con queste semplici parole di benvenuto Nunzio Filogamo era solito inaugurare le prime edizioni del Festival di Sanremo trasmesse dalla Rai delle origini. E aveva capito tutto: la tv, quello «scatolone» (come diceva Ugo Tognazzi in una celebre gag nelle vesti di Tognaccin lo scemo del paese) non è, fin dal primo giorno della sua vita italiana, un semplice passatempo; è molto di più: è la magica proprietà di farti «vedere lontano». Anche i giornali di carta stampata lo capiscono e ne hanno paura. Sta nascendo un concorrente spietato con una straordinaria forza d’incantamento sulle folle e che, a differenza dei quotidiani e dei rotocalchi, possiede una specie di dono dell’ubiquità: come un «sant’Antonio elettronico» rende possibile la miracolosa presenza simultanea di una stessa persona in due o più luoghi diversi: a migliaia di chilometri di distanza si gioca una partita di calcio e lo spettatore, nel bar sotto casa, può seguirla come se fosse presente allo stadio. Bisognerà pur tenerne conto perché è impossibile ignorare il brivido che corre lungo tutta la spina dorsale della Penisola. Nasce da qui la figura del «critico televisivo». Ci deve raccontare quel che ribolle nello «scatolone». Di più: deve commentarne le gesta e farcene capire il senso. Senza sudditanza, anzi dall’alto del primato intellettuale che la carta stampata si autoriconosce. Oggi quella nuova figura dell’informazione diventa il protagonista di un libro di Aldo Grasso: L’Italia alla tv. La critica televisiva nelle pagine del «Corriere della Sera» . Racconta com’è cambiata la tv (con il Paese) a partire dagli anni Cinquanta, fa rivivere le «recensioni» degli intellettuali che si sono votati con fatica e stupore al nuovo «mostro», fa riaffiorare dagli archivi i volti dei popolari conduttori e le immagini dei programmi mitici.
Anni Cinquanta. Scrive Michele Serra: «Un elettrodomestico di legno e vetro, un incrocio a prima vista fra la radio e il cinema, ha mutato il ritmo delle nostre giornate. Una volta entrata in casa la televisione occupa stabilmente un posto nella nostra giornata». Più direttamente, e siamo proprio agli inizi, il critico teatrale Giovanni Cenzato scrive sul «Corriere d’Informazione» il 30 novembre 1954 (allora il «Corriere della Sera» mandava avanti la sua edizione del pomeriggio a parlare di tv), dopo aver elogiato una Bohème con la regia di Franco Enriquez, che quell’altro programma, Un… Due… Tre… è da deplorare perché offre «certi numeri da fiera o addirittura da marciapiede di villaggio, come il mangiafuoco, un fachiro che offriva i suoi prodigi insieme a due ballerinette seminude. Ma che roba è questa? Istruttiva no. Educativa no. Divertente? Meno ancora che no». Quando Cenzato passa il testimone a Giuliano Gramigna, raffinatissimo intellettuale, sofisticato poeta, audace critico letterario, cervello perso nei labirinti di Freud, Jung e Lacan, la situazione cambia notevolmente. Gramigna non scrive per il suo mondo, ma per gli italiani, pure per quelli che non hanno (ancora) la televisione. Anche nella fase più contestata di Lascia o raddoppia?, in cui al programma si rimprovera da più parti l’eccessiva insistenza su concorrenti (troppo) «personaggi», Gramigna va controcorrente intuendo che i programmi televisivi funzionano bene quando riescono a costruire un «racconto», soprattutto a partire dai loro protagonisti: «A somiglianza di ogni spettacolo, anche una gara di telequiz ha bisogno di caratteri, di quella comicità intensa e segreta che nasce tra il pubblico (anche se invisibile) e gli eroi (modesti, ma qui "veri") della ribalta». Intanto la «Domenica del Corriere» in copertina sotto un papà in giacca e cravatta, una mamma con il grembiule, una figlia accucciata per terra e un figlioletto che indica lo schermo dove un portiere di calcio fa una parata sensazionale, scrive: «Rivoluzione in famiglia: l’arrosto brucia, i bambini dimenticano i compiti, il papà la pipa e l’appuntamento al caffè. Sono cominciate trasmissioni regolari della televisione».
Anni Sessanta. È l’età dell’oro, la golden age dell’Italia del boom. In tv (e non soltanto in tv) è successo tutto quello che doveva succedere, sono emersi tutti i protagonisti, si sono manifestate tutte le espressioni artistiche, linguistiche, culturali e musicali possibili. Sulle pagine del «Corriere» emergono in controluce molti dei miti fondativi della cultura popolare nazionale: le Olimpiadi di Roma, le gemelle Kessler, i Beatles, i Rolling Stones , il miracolo economico , le vacanze, il juke-box, i fumetti, la Fiat, il twist, la minigonna, le tappe storiche del Tour e del Giro, il calcio dei terzini e delle ali, il Festival di Sanremo e la musica pop che sta assumendo sempre maggiore centralità nei consumi culturali degli italiani. E Giovanni Mosca dà un senso rituale agli appuntamenti davanti alla tv: «La famiglia, ormai, si ricompone non soltanto la sera di Natale, ma anche le sere delle grandi partite, la tavola è apparecchiata con la tovaglia delle grandi occasioni, una bottiglia di vino vecchio, la torta, la letterina sotto il tavolo. È così in quasi tutto il mondo. La partita viene trasmessa via satellite, la vediamo noi, la vedono i russi, i turchi, i lapponi, potrebbero vederla anche gli americani, ai quali, però, non piace il gioco del calcio, ma verrà presto inventato uno spettacolo che piaccia a tutti, e il mondo intero, certe sere, si raccoglierà intorno al televisore come un’immensa famiglia».
Anni Settanta. E scoppia il Casino. È quel magnifico provocatore di Pier Paolo Pasolini che trova una inaudita complicità con il «Corriere». Profetico, scrive: «La forma di vita — sottoculturale, qualunquistica e volgare — descritta e imposta dalla televisione non avrà più alternative. Ora i dirigenti della televisione usano dichiararsi innocenti a tutto questo». E poi la sfida — come sempre perdente, ma che qualche traccia ha lasciato. «Li sfido programmaticamente e elementarmente, su un punto solo. Essi sanno bene che la cultura di massa, così com’è, è sottocultura, anzi, anticultura, e se il fenomeno è ormai irreversibile — essendo le masse una realtà — esso, come ogni fenomeno storico, va affrontato, corretto, modificato». L’accusa è chiara: la televisione ha contribuito in modo decisivo alla «scomparsa delle lucciole», trasformando un mondo agricolo e paleocapitalista in una società industrializzata dominata da una cultura di massa. Insomma, Pasolini voleva un Carosello dei libri: non lo avrà mai. In quegli anni (1979) il capolavoro della critica televisiva lo scrive ancora Giuliano Gramigna: nel venticinquesimo compleanno della tv gli chiedono di dar conto dei suoi diciassette anni di militanza da critico: piange le sue fatiche, ma chiude scrivendo con orgoglio: «Parafrasando gaglioffamente Manzoni: "Io c’ero!"».
Anni Ottanta. C’è un protagonista nuovo. La tv commerciale di Silvio Berlusconi. C’è un nuovo soggetto imprenditoriale, la costruzione mitologica di un impero, la figura dirompente del tycoon milanese. «Deregulation» è la sua (vincente) parola d’ordine. Pubblicità e intraprendenza; basta un esempio: pensare che il serial Dallas l’aveva comprato la Rai e non l’aveva saputo usare, Berlusconi vola in America se lo ricompra e ci campa di audience e di pubblicità per un paio di lustri. E lo fa diventare una specie di eroe della libera tv. Tanto che Gaspare Barbiellini Amidei scrive il 27 ottobre 1984: «L’Italia non è innamorata di Gei Ar, è innamorata della libertà, anche quando ha vesti leggere. La libertà è indivisibile, e non è snob: pure chi detesta i fumettoni televisivi può pretendere che sia garantita la libertà di vederli e di trasmetterli».
Anni Novanta. Il capitolo manca e merita un libro a sé; lo scriverà qualcuno citando le critiche tv di Aldo Grasso sul «Corriere della Sera».
Francesco Cevasco