Sergio Romano, Corriere della Sera 27/11/2010, 27 novembre 2010
PRIMA PUNTATA - LA ROMANIA CHE RIVALUTA (IN PARTE) IL PASSATO
Quando il presidente romeno Nicolae Ceausescu fu sommariamente processato e giustiziato nel giorno di Natale del 1989, il 67% del suo enorme palazzo era già stato costruito. Qualcuno propose la demolizione di quella faraonica follia. Altri osservarono che il materiale per terminare il lavoro (marmi, legno pregiato, tappeti, stoffa per le tende, infissi) era già nei cantieri e che il costo della demolizione sarebbe stato superiore a quello per il completamento dell’opera. Fu deciso di proseguire i lavori.
Oggi il palazzo è il più importante edificio di Bucarest. Sorge in fondo a un lungo viale che imita gli Champs Elysées di Parigi. È grande, più o meno, quanto il Pentagono di Washington. Ha tende che pesano 250 chili e tappeti che hanno le dimensioni di un campo di calcio. Ha mille stanze (ma nessuno le ha mai contate e potrebbero essere di più). E’ gestito da 600 uscieri, inservienti, camerieri, facchini, contabili, impiegati d’amministrazione, architetti e decoratori. Ospita il Senato e la Camera dei deputati, comitati, associazioni, convegni, ricevimenti. Tre anni fa, nel 2007, questo Colosseo del comunismo trionfante ha ospitato persino un vertice della Nato. Insomma è contemporaneamente una istituzione nazionale e un business.
Ed è il palazzo di Ceausescu, il dono alla nazione di un uomo che è stato crivellato di colpi, insieme alla moglie, nello squallido cortile di un piccolo distaccamento militare a qualche decina di chilometri da Bucarest.
Ho chiesto ai miei interlocutori romeni quale fosse, più di vent’anni dopo la sua morte, l’immagine del dittatore. Nessuno lo rimpiange apertamente, ma qualcuno mi ha detto che ha avuto il merito di garantire l’autonomia della Romania nel blocco comunista, che ha pubblicamente sfidato l’Unione Sovietica durante l’invasione della Cecoslovacchia, che è stato stimato e corteggiato dai leader delle democrazie occidentali e, infine, che tutti i romeni, negli anni della dittatura, avevano un tetto e una certa sicurezza economica. Cercherò di spiegare in un altro articolo perché questa parziale rivalutazione dipenda soprattutto dalle condizioni economiche di un Paese dove il governo, nelle scorse settimane, ha drasticamente ridotto l’ammontare delle pensioni e diminuito del 25% i salari della funzione pubblica. Ma è certamente vero che il caso Ceausescu è ancora un nodo irrisolto della politica romena. La piazza insorse il 22 dicembre e costrinse il dittatore a fuggire con un elicottero dal palazzo del partito. Ma il processo e la fucilazione assomigliano a una congiura di palazzo in stile ottomano-balcanico più di quanto non assomiglino a una rivoluzione. Ho approfittato di un viaggio a Bucarest, in occasione di un Salone del libro organizzato dalla radio romena, per parlarne con l’uomo che fu protagonista di quegli avvenimenti e successore di Ceausescu al vertice dello Stato.
Ion Iliescu ha ottant’anni e ha fatto una brillante carriera nel partito comunista romeno sino a diventare, verso la fine degli anni Sessanta, segretario del Comitato centrale. Ma si oppose alla svolta poliziesca e totalitaria del regime all’inizio degli anni Settanta e fu relegato in posizioni periferiche di scarsa importanza. Quando il regime cominciò a traballare verso la metà di dicembre del 1989, uscì dall’ombra, apparve alla televisione, fondò un comitato di salute pubblica, presiedette un Consiglio provvisorio di unione nazionale e fu eletto, nel maggio del 1990, alla presidenza della Repubblica: una carica che ha ricoperto sino al 1996 e, successivamente, dal 2000 al 2004. Entro nel suo ufficio dopo avere attraversato una galleria decorata da fotografie che lo ritraggono insieme alle maggiori personalità politiche del mondo. Parliamo francese perché la Francia, per la generazione di Iliescu, fu sino alla Seconda guerra mondiale la cultura, la moda, il modello politico, il garante degli equilibri balcanici: un ruolo simile a quello degli Stati Uniti per gli ex satelliti dell’Europa centro-orientale dopo il crollo del comunismo. Gli faccio una sola domanda. Gli chiedo quando e perché decisero di processare Ceausescu.
Iliescu mi parla anzitutto dei suoi rapporti con il dittatore e mi dice che peggiorarono rapidamente quando Ceausescu, dopo un viaggio in Corea del Nord, fu folgorato dal modello totalitario di Kim il Sung e decise di importarlo in Romania. Pensava che soltanto il controllo totale e poliziesco della società romena lo avrebbe messo al riparo da eventuali mosse occidentali e, soprattutto, vendette sovietiche. Non appena la Transilvania insorse, verso la metà di dicembre, il leader comunista non aveva progetti riformatori e strategie politiche, ma soltanto la convinzione che qualsiasi manifestazione di protesta, nel sistema da lui creato, potesse venire soffocata con la forza. E quando dovette fuggire precipitosamente dal tetto del palazzo, la - sciò un pericoloso vuoto di potere. La decisione di arrestarlo e processarlo fu presa non appena i membri del Comitato di salute pubblica, durante la loro prima riunione, sentirono i colpi degli scontri a fuoco che stavano confusamente scoppiando nelle vie di Bucarest fra i dimostranti, la polizia e gli odiati agenti della Securitate (il Kgb romeno). Ceausescu era fuggito, ma poteva ancora contare, probabilmente, su tutti quegli «attendisti» del partito e dell’apparato statale che aspettavano l’evoluzione degli eventi per gettare il loro peso sulla fazione che aveva maggiori possibilità di conquistare o riconquistare il potere.
Occorreva quindi intervenire rapidamente e stroncare sin dall’inizio qualsiasi tentativo restauratore. Iliescu è uomo di mondo, intelligente e seducente. E’ probabile che la sua ricostruzione di quel drammatico dicembre sia stata semplificata e abbellita, che alcuni particolari meno confessabili siano stati omessi. Ma la sua tesi è convincente. Resta tuttavia il fatto che la rapida e brutale eliminazione di Ceausescu ha evitato quel confronto alla luce del sole tra il partito comunista e la società da cui sarebbe emersa una nuova generazione della politica romena. Vi furono interessanti volti nuovi come quello di Petre Roman, primo ministro dal dicembre 1989 all’ottobre 1991.
Ma la rivoluzione dall’alto di Iliescu permise al partito di trasferire gran parte del suo apparato nei ranghi della democrazia. E questo, come dirò in un secondo articolo, ha avuto un’inevitabile influenza, come in Russia, sulla trasformazione civile ed economica del Paese.
Sergio Romano