Sergio Rizzo-Gian Antonio Stella, Corriere della Sera 27/11/2010, 27 novembre 2010
LA REGIONE SPOPOLATA E IL SOGNO DELLA FABBRICA
Quei discoli di «Cuore», anni fa, riuscirono a riderci su: «Italia: tu tilato noi ploplio glosso pacco». Si raccontava la storia di un’impresa concepita per fare catenine e monili d’oro e via via battezzata e ribattezzata con nomi sempre diversi e soci sempre diversi fino ad attirare l’attenzione di un consorzio pechinese, il Bejing Art & Craft. Il tutto senza mai nascere. Senza mai assumere gli operai promessi. Senza mai produrre una sola catenina. Al punto di scatenare un’inchiesta dell’allora Pm di Potenza Henry Woodcock (finita col rinvio a giudizio dei vari protagonisti per bancarotta fraudolenta) e di lasciarsi dietro uno strascico di polemiche per l’enormità dei soldi buttati e l’irritazione dei cinesi che, convinti d’esser stati bidonati, avrebbero oggi deciso di lasciar perdere l’oro e di tornare a batter cassa (incentivi su incentivi) con l’obiettivo di passare all’argento. Chi avesse ragione o torto, tra i cinesi e gli italiani, non è chiaro. Ma certo anche il giornale satirico faticherebbe oggi a ridere di quell’imbroglio. Perché l’odissea della «Sinoro» (ultimo nome assunto dalla fabbrica mai nata) è solo la metafora di una storica sconfitta. Quella del tentativo di portare in Basilicata le industrie con i soldi piovuti dopo il terremoto del 1980. Tantissimi soldi.
L’illusione è durata pochi anni. Giusto il tempo per accorgersi che la Basilicata sarebbe stata risucchiata di nuovo nel gorgo delle regioni europee più depresse. L’emigrazione, che nel secolo scorso aveva spopolato interi paesi, è ripresa alla grande. Tanto che la regione ha perduto in meno di vent’anni, dal 1991 al 2010, ben 23 mila abitanti: da 611 mila a poco più di 588 mila. Un dato dice tutto. Al momento dell’ Unità, nel 1861, negli attuali confini italiani vivevano 27 milioni di persone: sono più che raddoppiate. In Basilicata ce n’erano circa mezzo milione. Sono rimaste più o meno le stesse.
Il reddito pro capite è intorno al 72% della media nazionale. E da qualche anno la Lucania, dopo essere stata faticosamente tirata fuori con robusti flussi di denaro dalle regioni depresse classificate dalla Ue con la sigla «Obiettivo uno», sta tornandoci dentro. Sta cioè scivolando di nuovo tra le aree che hanno un Pil pro capite inferiore ai tre quarti della media continentale e che perciò vengono aiutate dall’Unione. Media, si badi bene, abbassata da Paesi come Cipro, Polonia, Estonia, Romania… Un guaio. Perché quei soldi, stando alle regole attuali, non arriveranno più. Neanche se la Basilicata tornerà a essere una regione povera. Uno smacco. Che spazza via decenni di illusioni. Alimentate soprattutto dal petrolio dell’Eni, che doveva trasformare la Basilicata nel Texas d’Italia. Dalle aree attrezzate per attirare le fabbriche del Nord. Dallo sbarco della Fiat.
Quando l’allora sindaco di Melfi Tommaso Bufano, una mattina del 1990, ricevette la telefonata di Romiti, pensò a uno scherzo. Chi aveva ricevuto la chiamata, alle otto meno qualche minuto, neppure aveva capito il nome: «Ha chiamato un certo Romita». «Romita chi? Il ministro?». Finché il telefono squillò di nuovo: «Sono Cesare Romiti. Volevo dirglielo di persona, prima che lo apprendesse dalla televisione. Abbiamo deciso di fare un grande stabilimento a San Nicola di Melfi». Poco mancò che Bufano svenisse.
La svolta storica, pareva. Quella definitiva. Che chiudeva una volta per tutte con la Basilicata descritta nel 1899 in «Eroi e Briganti» da Francesco Saverio Nitti, lucano, meridionalista, sostenitore della tesi che solo l’industrializzazione avrebbe risollevato il Sud. Quando nel settembre 1902 (affrontando un viaggio attraverso paesi «senza alcuna strada rotabile» dei quali certi «non hanno neppure vie mulattiere e loro servono di strada i letti dei torrenti») ci andò il bresciano Giuseppe Zanardelli, il primo capo di governo settentrionale che cercò davvero di conoscere il Sud, restò ammutolito. Il mondo conosceva già da 77 anni il treno, da 68 il telegrafo, da 47 il motore a scoppio, da 23 la lampadina, da 18 il tubo catodico, da 12 la metropolitana elettrica. E a Matera, scriveva una relazione presentata dal Comizio Agrario a Zanardelli, «cinque sesti della popolazione materana abitano in tugurii scavati nella nuda roccia, addossati, sovrapposti gli uni agli altri, in cui i contadini non vivono ma a mò di vermi brulicano squallidi avvoltoi nella promiscuità innominabile di uomini e bestie, respirando aure pestilenziali».
Oltre mezzo secolo dopo, nel 1963, nonostante la prima legge speciale per la Basilicata (liquidata da Gaetano Salvemini come «paccottiglia») Giovanni Russo spiegava sul Corriere che non era cambiato nulla: «In tutta la regione l’analfabetismo è ancora elevato, le abitazioni sono per il 70% tuguri inabitabili e poco meno della metà dei paesi sono forniti di fognature». Le industrie piemontesi e lombarde, tedesche e francesi, attiravano emigranti offrendo «90.000 o 100.000 lire al mese, una somma favolosa per un contadino lucano che ottiene ancora, al massimo, un reddito di 120.000 lire all’ anno». Tanti paesi, chiudeva con un groppo in gola, «sono diventati dei presepi deserti».
Immaginatevi ora l’impatto della notizia: la Fiat a Melfi! Il piano era stato studiato a lungo
dai vertici della casa torinese. In ballo c’erano i quattrini, un fiume, destinati alle grandi imprese che avessero investito al Sud. L’euforia colse la città e l’intera Regione, che già avevano sperimentato una bella iniezione di denaro pubblico. Grazie ai fondi del terremoto dell’Irpinia era stata creata un’area industriale a San Nicola di Melfi, una decina di chilometri dal paese dominato dal castello di Federico II. Erano sorti uno stabilimento di piastrelle, una industria tessile, anche un albergo. Tanti tentativi, risultati così così…
Ma la Fiat, quella era un’altra cosa. Non solo per i 2.884 miliardi di contributi statali che avrebbero portato lavoro per migliaia di persone e decine di imprese per la costruzione della fabbrica. Il grande stabilimento di automobili avrebbe trascinato con sé anche un gigantesco indotto. Senza considerare l’effetto emulazione. Fu così che la pioggia di denaro cadde allegra anche sulla Barilla, che ebbe 218 miliardi di lire per la sua fabbrica melfitana. Su Gaspare Marcora, figlio del defunto leader dc Albertino Marcora, destinatario di un contributo di 21 miliardi per la sua azienda tessile Marcofil. Sulla modenese Stilgres del gruppo Giacobazzi, che raddoppiò la fabbrica di piastrelle.
L’entusiasmo era tale che l’amministrazione comunale prefigurò un piano di sviluppo come se la città dovesse triplicare gli abitanti, da 16 mila a 50 mila persone. E poi strade, ferrovie, promozioni… Come potevano, ora, negare a Melfi lo status di capoluogo di provincia? Il sindacato accettò deroghe al contratto nazionale: salari un po’ più bassi, condizioni di lavoro un po’ più flessibili… Perfino la Fiom fece buon viso a cattivo gioco. In un’area ad alta disoccupazione si trattava di dare lavoro a migliaia di giovani. Sperimentando una nuova strategia industriale: quella della fabbrica integrata
just in time, con grande impiego di robotica. Un unico insediamento avrebbe ospitato i produttori di componenti e lo stabilimento Fiat, abbattendo i costi delle scorte e dei trasporti per assicurare una competitività giapponese. Non a caso la Punto, macchina della svolta dopo la grande crisi dell’inizio degli anni Novanta, uscì da Melfi. E lì è sempre stata prodotta. Non a caso per fare quello stabilimento si creò una società apposita distinta dalla Fiat auto, battezzata Sata: Società automobilistica tecnologia avanzata. Ma quella fabbrica aveva anche altre particolarità. Per esempio il modello partecipativo, con l’introduzione di frammenti di cogestione dei ritmi di lavoro. Per esempio, una percentuale elevatissima di donne, almeno il 20%, rispetto agli impianti tradizionali. Doveva essere uno stabilimento nuovo di zecca, anche nella cultura dei lavoratori. Perciò, contrariamente alle abitudini aziendali che accordavano il trasferimento al Sud agli operai degli impianti settentrionali desiderosi di tornare nelle zone d’origine, si decise di assumere tutti ex novo. Proprio per evitare che la mentalità di Mimì metallurgico, e anche un certo sindacalismo, potessero contaminare la creatura.
Quindici anni dopo, cosa resta del grande sogno? Mah… La fabbrica «partecipativa» ha lasciato il posto a una fabbrica «normale». Gli abitanti di Melfi, che dovevano triplicare, sono passati da 15.757 a 17.433: nel 1961 erano 18.208. Eppure a San Nicola lavorano più di 10 mila persone: in rapporto agli abitanti è la più grande concentrazione industriale d’Italia. Solo gli addetti della Fiat sono 5.693. Ma con le 17 industrie dell’indotto si arriva a 8.263. Perché la città allora non è cresciuta?
Il dibattito va avanti da anni. L’opposizione, nell’unica città lucana governata dal centrodestra fin da quando è iniziata l’era Fiat (si pensi che a dispetto della spropositata massa operaia Rifondazione e i Comunisti italiani hanno preso insieme alle ultime regionali l’1,15%!), dice che è colpa dell’inerzia del Pdl. Racconta che per trasformare Melfi in una città moderna era stato interessato perfino l’architetto Renzo Piano «ma poi non se ne fece nulla». Come non si fece nulla del previsto raddoppio della strada che collega Candela a Potenza. E di un piano di 8 mila alloggi che avrebbero dovuto essere concessi a riscatto agli operai. «Secondo i nostri calcoli il Comune ha incassato solo di Ici dell’area industriale una cinquantina di milioni di euro», accusa Bufano, «ma non mi risulta che siano stati spesi».
E la Fiat? Che ne è stato della Fiat? Dopo quella del 1992-1993 c’è stata una nuova crisi, poi un’altra ancora. E anche l’illusione della fabbrica modello è pian piano svanita. Un primo brusco risveglio c’è stato nel 2004, quando l’impresa chiese di introdurre un meccanismo di turnazione particolare, la «doppia battuta». Un sistema di turni notturni continui che avrebbe consentito di recuperare fino a cinque giornate di lavoro l’anno a dipendente. Le reazioni furono durissime: scontri, scioperi, cortei con il vescovo in testa. Nel sindacato, che si era spaccato, il travaglio fu dolorosissimo. Ancora più brutto il secondo risveglio, con la crisi seguita al crac finanziario mondiale del 2008. E non solo per ciò che è capitato qui, con i nuovi contrasti interni al sindacato e il licenziamento di tre operai, poi reintegrati dal giudice mentre l’azienda si rifiutava di farli entrare in fabbrica dicendosi disposta a pagar loro lo stipendio purché rimanessero a casa fino alla sentenza definitiva. Uno strappo clamoroso, seguito dalle scioccanti dichiarazioni dell’amministratore delegato Sergio Marchionne, secondo il quale non un euro di utile per la casa torinese proviene dagli stabilimenti italiani. Parole interpretate come la premessa per il disimpegno (smentito) della Fiat dall’Italia. Ma sono i numeri che lasciano poco spazio all’immaginazione. Con circa 30 mila addetti e un indotto di altre 120 mila persone, gli stabilimenti italiani hanno una capacità produttiva teorica di un milione e mezzo di vetture l’anno. Ma oggi ne escono 650 mila. Più o meno quante ne produce lo stabilimento Fiat in Polonia con 6 mila operai (più l’indotto). Melfi è di gran lunga la fabbrica più produttiva della casa torinese in Italia: basti dire che una Punto assemblata lì costa 500 euro meno che a Termini Imerese e 300 in meno rispetto a Mirafiori. Lì si potrebbero produrre 450-500 mila auto l’anno. Invece non se ne fanno che 220 mila, anche per tenere in piedi le altre fabbriche. La Lancia Y, per esempio, usciva dalle linee di Melfi: poi è stata spostata a Termini Imerese.
Per questo Melfi ha paura. Teme di fare le spese di tutto il resto. Fino al 2004 neanche sapevano, qui, il significato delle parole Cassa integrazione. Nel solo secondo semestre 2010 i giorni di «Cassa» sono stati 40. Anche l’indotto si è fermato. In quei giorni la gigantesca zona industriale melfitana si era trasformata in una città fantasma, percorsa solo dai cani randagi. Va da sé che anche la pace sindacale è finita. Come è finita la tregua fra gli stessi sindacati. La Fiom, che ha la maggioranza relativa ma è in minoranza per il gioco delle alleanze, è sulle barricate. Gli altri sindacati sperano. Sperano che arrivi la nuova linea di produzione dell’Alfa Mito, che la Y cinque porte non emigri in Polonia, che la promessa di Marchionne, intenzionato a produrre in Italia almeno un milione 200 mila auto, si avveri…
Fatto sta che la situazione non è mai stata così difficile. Anche perché gli operai assunti vent’anni fa sono ancora troppo giovani perché inizi il turnover. E il panorama intorno è desolante. Allarga le braccia il sindacalista della Cisl Antonio Zenga: «Tutti i giorni governiamo chiusure di fabbriche». Nel 2009, dice uno studio Unioncamere, «gli effetti della crisi globale sono risultati amplificati dalle fragilità strutturali dell’economia locale» con un calo del Pil pro capite del 7%. Nettamente superiore alla già allarmante media italiana. E mentre si segnalano preoccupanti infiltrazioni della criminalità organizzata, pare riacutizzarsi l’antica piaga dell’ emigrazione. Se ne vanno al Nord o all’estero perfino i giovani laureati rom di Melfi. Ragazzi appartenenti a una comunità di «zingari» fra le più antiche, colte e meglio inserite d’Italia. Una comunità che ha visto Saverio Bevilacqua, uno dei commercialisti più in vista della città, diventare non solo consigliere provinciale ma presidente del locale Rotary. Una comunità che già ai tempi di Zanardelli, quando l’analfabetismo qui era al 79%, come dimostra un libro di Jessica Boccia e Mauro Tartaglia, mandava i bambini a scuola. Per non parlare della politica. La carenza di
leadership, dopo l’autunno del patriarca Emilio Colombo, è drammatica. Destra o sinistra, i lucani a Roma pesano sempre meno. Figurarsi a Bruxelles. E forse mai come ora la regione, nonostante possa dire con fierezza d’essere l’unico pezzo del Sud dove le mafie e le camorre e la ’ndrangheta e le sacre corone non sono mai riuscite a impossessarsi del territorio, si è sentita lontana da Roma, lontana dall’Europa.
Non è facile, mentre ti senti risucchiato dentro le aree depresse dell’«Obiettivo uno», guardare al futuro con ottimismo. Il panorama delle nove aree industriali allestite in provincia di Potenza coi finanziamenti seguiti al terremoto del 1990, tolta la Fiat, è sconfortante. Certo, qualche insediamento è stato benedetto dalla fortuna. Come lo stabilimento, che va benissimo, della Ferrero a Balvano. Per attirarlo lassù sulle montagne, come ricorda Antonello Caporale nel suo ultimo libro «Terremoti spa», costruirono l’area industriale, a prezzi salatissimi, a mille metri sul mare. È ancora leggendaria la risposta che diede il sindaco alla commissione parlamentare d’inchiesta: «Come mai lassù in cima?». «Ce l’ha chiesto la Ferrero per farci lo stabilimento. Dice che lassù le merendine lievitano meglio».
Quello che non è lievitato è il grande sogno industriale. Basti dire che a Baragiano, 638.570 metri quadri di area attrezzata dove dovevano essere assunti almeno 1.500 operai, dopo una via crucis di nascite e fallimenti, lavorano oggi in 125 nonostante i 250 milioni di euro in valuta attuale investiti complessivamente in quel progetto. Due milioni di euro a posto di lavoro. Un divario drammatico, tra sogno e realtà. Viene in mente la storia della ricottella che raccontava il vecchio Colombo: «La villanella con la ricottella se ne andava bel bella e lungo la strada, sempre con ’sta ricottella sulla testa e le mani sui fianchi, già se la godeva: mo’ mi vendo al mercato ’sta ricottella, coi soldini comincio a farmi la dote, con la dote mi trovo un marito, col marito mi fo la casa... Finché inciampò e...».
Sergio Rizzo
Gian Antonio Stella