Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2010  novembre 27 Sabato calendario

IL BELLO E LA BESTIA

Ditemi pure che sono un campagnolo, ma se drizzate le orecchie forse vi capiterà di sentire i versi di masse di cavalli, lo scalpitio di zoccoli e il peculiare, smisurato nitrito che proviene da qualche parte nel nord del Kent, dove Mark Wallinger installerà il suo cavalluccio gigante, in tempo per il grande afflusso olimpico del 2012. Una bestia alta cinquanta metri, con una groppa interminabile e un nodello smisurato. Ma l´ippomania è talmente dilagante nell´arte contemporanea che se un extraterrestre arrivasse sul nostro pianeta in tempo per la grande fiera dell´arte Frieze sarebbe perdonabile se pensasse che la Gran Bretagna intera è in preda a un culto esoterico della puledra e dello stallone.
Sul West End, il quartiere dei teatri londinese, dove impazza la pièce War Horse, convergono da ogni lato cavalli in pietra. A Park Lane, il monumento di David Backhouse, Animali in guerra, immortala un nobile e patriottico cavallo da tiro. Il modernismo britannico flirta da tempo con il mondo animale, ma le sue ossessioni finora avevano accenti più ovini e bovini che non equini, con un´ironica inclinazione a esplorare i cupi collegamenti fra macelleria, sacrificio e salvezza gelosamente custoditi dall´iconografia cristiana. Il Saint Sebastian, Exquisite Pain (2007) di Damien Hirst, ad esempio, con il suo corpo bovino martirizzato di frecce, vanta numerosi predecessori, non solo nel Sebastiano ripetutamente trafitto del quattrocentesco Piero del Pollaiuolo, ma anche nel Bue macellato di Rembrandt, a metà del Seicento, polposo simbolo di martirio per i calvinisti, la carcassa appesa alla sua croce di legno come una versione ancora più animalesca dei dipinti della Passione del giovane Rembrandt, con la tragica bestialità del loro strazio e tormento. «C´è una sorta di tragedia in tutte queste opere», ha detto Hirst parlando dei suoi animali sezionati e in formaldeide, e nonostante la sua laconicità quasi tutte le sue opere più forti attingono a quel filone, in gran parte dimenticato ma profondamente radicato, della cultura britannica: la sua antica, fervidissima religiosità.
l bestiario contemporaneo di Hirst, conficcato o macellato, testimonia e rende un contorto omaggio all´equazione tra sacrificio e salvezza tipica del cristianesimo. Ma l´ippomania dei nostri giorni è diversa, sconcertante nel suo eroico ottimismo, anche quando si sforza di essere tragica come nel monumento di Backhouse (2004). Lo scultore qui ha avuto lo strano istinto di rappresentare i soggetti della sua opera non come carcasse dilaniate e straziate, com´erano sul campo di battaglia, ma come spettri intatti che sembrano, peculiarmente, passare in rassegna di fronte al muro del memoriale a loro dedicato, più o meno come le famiglie dei caduti in Vietnam che cercano i nomi dei loro cari sul monumento di Maya Lin a Washington.
Ma la simbologia equina va in senso diametralmente opposto a quella degli animali macellati per il consumo dell´uomo. I manzi e le pecore brucano senza sapere di essere destinati al coltello affilato del macellaio, e la loro trascendenza in quanto simboli del nostro peccato collettivo è profondamente legata al nostro flebile ma persistente imbarazzo a trasformare in carne la loro innocenza. Cavallo e cavaliere, invece, si muovono quasi su un piano di parità, e ognuno nobilita l´altro. Trotterellano attraverso la storia come un simbolo sfacciato di potenza classica.
Molto migliore del confuso realismo di Backhouse è il Cavallo nero (2003) della giovane artista belga Berlinde de Bruyckere, un´interpretazione deformata ma stranamente pregnante del pedigree equino e del culto ossessivo votato alle razze equine e alla riproduzione. Invece di un esemplare perfezionato da innumerevoli calcoli sugli stalloni e giumente suoi predecessori, la de Bruyckere cuce insieme, letteralmente, un cavallo in più parti, che subisce un collasso vertebrale figlio della sua catastrofica costruzione.
La malizia dell´artista belga deturpa la tradizione, riesumando l´antichità (Perseo e Pegaso, il Bucefalo dipinto da Apelle, l´artista preferito di Alessandro) dell´incastro complementare fra cavallo e cavaliere. Seguirono pittori di corte come Tiziano, Van Dyck, Rubens e Velázquez, che produssero tutti immagini di meravigliosa sovranità, con la mano del principe che regge con nonchalance le redini del suo grande cavallo. Quando culture politiche aristocratiche come l´Inghilterra degli Hannover dispersero quel potere, il cavallo da guerra cedette il passo al cavallo da corsa, l´artista di corte all´artista di sport. Solamente George Stubbs riuscì a trascendere il genere con quadri in cui l´uomo e il cavallo erano virtualmente alla pari. Stubbs mutò la natura del genere, dai ritratti equestri alla ritrattistica di cavallo. Fu il primo a rendersi conto che la rappresentazione dei cavalli, fino a quel momento, si era conformata a modelli risalenti in gran parte al Rinascimento. Fu solo mutandosi in anatomista puro, cioè usando la morte per dare forma al trucco della vita, che Stubbs riuscì a realizzare The Anatomy of the Horse (l´anatomia del cavallo, 1766), il capolavoro che fece la sua fama e la sua fortuna. I soggetti dei suoi studi venivano portati nel solaio che gli faceva da studio e appesi al soffitto con una complicata imbracatura, quindi dissanguati, lentamente e metodicamente, fino a farli morire, iniettandogli sego nelle vene e nelle arterie per preservare, con grande sofferenza degli animali, la loro apparenza esteriore attraverso la pelle. A quel punto Stubbs procedeva a scuoiarli e quindi a sezionarli con cura sistematica. Un vero e proprio romanzo gotico! L´ultimo chiodo sulla tomba del kitsch equestre lo ha piantato Maurizio Cattelan. Probabilmente Cattelan conosceva la famosa storia dell´imbracatura di Stubbs quando ha realizzato la sua opera. Ma con Novecento (1997) quello che fa Cattelan è trasformare una bardatura pensata espressamente per trasportare senza rischi cavalli da corsa dalla scuderia alla stalla nell´esatto contrario, un´esibizione della loro assenza di vita. Come atto finale della lunga tradizione equestre è una decostruzione, a mio parere, abbastanza divertente, ma in definitiva banale. Quantomeno però svolge la funzione di un necrologio economico.
La tassidermia (e la chimica dell´obitorio) è qualcosa di vicino a un culto ossessivo per la nostra banda di artisti contemporanei. Abbiamo capito, abbiamo capito, verrebbe da urlare certe volte di fronte a qualcuna di queste confezioni postmoderne, ora fatemi vedere qualcosa su cui avete ragionato davvero, non qualche ovvietà da liceale sul mondo che sprofonda nei grumi sanguinolenti dei mattatoi. E loro ricominciano, come a dire: «No, non è affatto così; il motivo per cui immergiamo carcasse di animali nella formaldeide, per cui perdiamo tutto questo tempo (noi o i nostri salariati) a impagliare e cucire è che vogliamo lanciare un messaggio sull´arte stessa; la disinvoltura con cui ogni rappresentazione diventa una forma di tassidermia parata a festa, il fatto di immortalare momenti transitori». L´arte potrà anche essere la vittoria sulla decomposizione, ma l´artista contemporaneo, guarda un po´, contesta, dice che questo è impossibile. Il risultato finale di tutti questi sforzi non è altro che una sottospecie di inanimatezza. E il gesto contrario consiste nel mettere in primo piano proprio quei processi ripugnanti che la finta estetica della morte perfetta, la mortalità immacolata, nasconde. Ed ecco quindi Thousand Years di Damien Hirst (1990), che mette al centro di tutto il decadimento, o meglio il ciclo incessante di morte e rigenerazione, la larva e il moscone che nascono dalla testa in putrefazione.
Ma a volte la ricreazione è tutto quello che è, e ti trovi a sospirare e scrollare le spalle, sperando in qualcosa con un valore artistico più duraturo. Penso che la mia occasionale malinconia per il divario tra la grandiosità concettuale dei titoli delle opere («Mille anni», «L´impossibilità fisica della morte nella mente di un vivente») e l´effettivo valore illuminante delle stesse venga da un senso di ridondanza; tutta questa fatica, affannosamente tarantinesca, per superare l´estetica della morte tradizionale sostituendola con una nuova che in definitiva risulta altrettanto artificiale; lo smalto della Passione rimpiazzato da un recipiente di puzzolenti prodotti chimici.
(Questo articolo è una versione ritoccata di una conferenza tenuta da Simon Schama nell´ambito della Frieze Art Fair)
© The Financial Times
Limited 2010
(Traduzione
di Fabio Galimberti)