Franco Bruni, La Stampa 27/11/2010, 27 novembre 2010
L’INSOLVENZA NODO DELLA CRISI
L’ Irlanda e il Portogallo sono nel tunnel dell’emergenza, quello dove la Grecia è da tempo. Le loro economie sono troppo indebitate con l’estero, rischiano l’insolvenza. Se l’emergenza non viene gestita bene, i mercati aumentano i timori anche nei confronti della Spagna e anche del nostro Paese, soprattutto se ci avvitiamo in una crisi politica lunga e difficile. Il problema è diverso da Paese a Paese, ma dappertutto occorre ridurre la spesa e fare riforme radicali per rassicurare i creditori e migliorare la competitività.
L’Europa ha approntato un trattamento di emergenza che aiuti i Paesi in crisi debitoria a uscire dal tunnel. Il trattamento ha tre ingredienti. Il primo è un forte sostegno a breve della Bce, che assicura tutta la liquidità necessaria mentre comincia il resto del trattamento. Il secondo è un grandissimo fondo, finanziato dai governi europei e integrato da disponibilità del FMI, creato in occasione della crisi greca. E’ un fondo temporaneo, dal quale i Paesi in difficoltà possono prendere a prestito a tassi inferiori a quanto pretenderebbe il mercato, mentre avviano il risanamento e le riforme. L’esistenza del fondo permette alla Bce di limitare il suo sostegno al più breve periodo e rassicura i creditori, facendo scendere i tassi che i Paesi a rischio sono costretti a pagare per quando devono continuare ad attingere sui mercati. Il terzo ingrediente è quello decisivo, senza il quale i primi due non hanno senso: sono le politiche di aggiustamento e di riforma che i Paesi devono mettere in atto chiedendo sacrifici ai loro cittadini, sconfiggendo i gruppi di interesse contrari alle riforme, ma assicurandosi una prospettiva di ripresa sostenibile e un sistema economico organizzato in modi più moderni, efficienti e giusti. L’incentivo a intraprendere queste politiche dovrebbe venire dalla volontà politica dei governi a uscire dal tunnel, dalle pressioni delle autorità europee e dal timore di un baratro di insolvenza le cui procedure e i cui costi rimangono minacciosamente ignoti.
Se i tre ingredienti funzionano, il Paese inguaiato guarisce in tempi ragionevoli e i suoi creditori non soffrono perdite, nonostante abbiano accettato il rischio di finanziarlo e abbiano percepito interessi elevati per compensare quel rischio. Il costo del trattamento ricade quasi tutto sui cittadini, i contribuenti e gli operatori economici del Paese che si aggiusta.
Fin dall’esplodere del caso greco molti auspicano un trattamento diverso, che preveda una vera procedura di insolvenza dei Paesi troppo indebitati. I quali ristrutturano il loro debito, rivedendone le scadenze, gli oneri di interesse e persino l’ammontare da rimborsare. Parte del guaio viene così pagata dai creditori, comprese le banche internazionali, che li hanno imprudentemente finanziati, lucrando però elevati interessi. L’insolvenza di un Paese non è una procedura facile da inventare e organizzare. Comporta comunque aggiustamenti e riforme dei Paesi insolventi. Ma induce anche una disciplina preventiva che diminuisce la probabilità di nuove future esagerazioni nel debito, anche perché porta i finanziatori a essere più oculati e prudenti con i Paesi indisciplinati.
Nel lungo periodo un trattamento che preveda l’insolvenza e punisca anche i creditori è più giusto e crea più incentivi a mantenere i Paesi su sentieri di stabilità e competitività. Ma nel breve periodo la possibilità di insolvenza complica il trattamento dell’emergenza con i tre ingredienti sopra descritti. Infatti la possibilità di scaricare parte dei costi sui finanziatori, da un lato abbassa la pressione all’aggiustamento sui governi in difficoltà, dall’altro mantiene molto alti i tassi chiesti dai mercati per finanziarli. Persino la Bce può temere per il buon fine dei suoi sostegni a breve.
C’è dunque un contrasto fra il trattamento dell’emergenza ereditata dal passato e le regole da disegnare per evitare che, in futuro, si riformino debiti eccessivi di Paesi indisciplinati. Il contrasto complica la gestione della crisi in corso. A tratti lascia scorgere divergenze fra attori cruciali, come la Bce, che non vuole sentir parlare di insolvenze, e il governo tedesco, che vorrebbe se ne parlasse almeno quanto basta per non dare ai Paesi indebitati e ai loro creditori l’impressione che, per quanto indisciplinato, un Paese non viene mai lasciato fallire.
Non è facile trovare il giusto equilibrio in questo contrasto. Va accelerato il disegno di regole che ammettano il «fallimento» di un Paese troppo indebitato. Ma va esclusa nettamente l’applicazione di queste regole al trattamento degli attuali eccessi di debito, che deve consistere nei tre ingredienti previsti dalle autorità europee e che, come previsto, deve dare i suoi risultati in un periodo fra i tre e i cinque anni. Dopodiché si riparte con i Paesi risistemati e nuove regole che prevedono anche il loro fallimento se tornano a comportarsi imprudentemente e trovano chi finanzia la loro indisciplina.
Va comunque escluso del tutto un terzo modo di affrontare il problema: la cosiddetta «uscita dall’euro» dei Paesi in difficoltà. E’ una soluzione che qualcuno ventila ma che non avrebbe benefici per nessuno e produrrebbe costi per tutti. I profondi problemi di aggiustamento strutturale dei Paesi in difficoltà non si risolverebbero affatto «svalutando» il loro cambio. Cadrebbero in una spirale di inflazione e instabilità monetaria pericolosa per tutta l’Ue. La loro competitività registrerebbe effimeri miglioramenti ma la loro marginalizzazione nella finanza e nel commercio internazionale peggiorerebbe. L’Ue non è stata affatto imprudente nel togliere lo strumento della svalutazione del cambio dalle mani di governi nazionali tentati dall’indisciplina macroeconomica. Sarebbe gravissimo riconsegnarglielo.