Marcello Sorgi, La Stampa 27/11/2010, 27 novembre 2010
IL GOVERNO DI MINORANZA ULTIMA CARTA DEL PREMIER
Questa del governo di minoranza, che da due giorni passa di bocca in bocca come via d’uscita più probabile della crisi, è un’ipotesi con troppi padri. Ne parlano, forse temendola, ma fingendo di esserne i veri strateghi, finiani e centristi, che la presentano come l’estrema umiliazione di Berlusconi.
Ela sussurrano, con molta più circospezione, gli uomini più vicini al Cavaliere, secondo i quali invece rappresenta l’unico modo di ottenere la sconfitta della sfiducia annunciata da Fini e Casini.
Certo, è difficile capire cosa avrebbe da festeggiare Berlusconi all’idea del suo governo, nato con più di cento voti di maggioranza alla Camera, che in due anni e mezzo non riesce neppure a superare la fatidica soglia 316, la metà più uno dei deputati. Ma tant’è: ognuno si consola come può. Ed è bastato cominciare a contare sulla possibilità di un esito come questo il 14 dicembre a far cambiare da un giorno all’altro gli umori a Palazzo Chigi. A cominciare da quello del capo che condiziona tutti gli altri.
Il piano, spiegano, è abbastanza semplice. Piuttosto che inseguire l’obiettivo pericoloso dei 316 voti a favore, che alla fine potrebbero esserci o non esserci, basterà ottenere la maggioranza dei presenti in aula. Muoversi, insomma, verso un risultato simile, anche se non eguale, a quello che consentì di salvare a luglio il malcapitato sottosegretario alla giustizia Giacomo Caliendo, una delle prime vittime della guerra interna al Pdl. Allora Fini con la sua pattuglia decise di astenersi, e Caliendo fu salvo. Bisognerà vedere cosa accadrà con il passaggio di Futuro e libertà all’opposizione.
Qui sta l’incognita e qui diventano decisive le assenze che abbassano il quorum per il governo. In questi mesi, in seno al neonato gruppo di minoranza del centrodestra, ci sono state molte discussioni, ma al dunque Fini ha dimostrato finora di poter condurre il suo drappello dove vuole. Stavolta vuol portarli a sfiduciare il governo, ed è con questa prospettiva che Berlusconi ha dovuto fare i conti.
Nell’attesa, ha attraversato tutti i possibili stati d’animo. Prima ha negato che fosse possibile sfiduciarlo, promettendo di esibire una lettera, che nessuno ha visto, con dodici firme di finiani lealisti che giuravano di non voler votare contro il governo. Poi ha cominciato a rendersi conto delle reali difficoltà. E benché riluttante, s’è rassegnato a piegarsi alla scorciatoia del governo di minoranza. Non c’è altra strada: gliel’hanno detto tutti, da Letta a Bossi, al suo vecchio amico Confalonieri.
L’ultima offerta, prima di questa settimana di guerriglia, al solito era venuta da Casini. Tu ti dimetti, aveva proposto Pier a Silvio, fai un appello a tutti, in nome della serietà del momento e dei rischi per la crisi economica europea, e noi dell’Udc siamo i primi ad accoglierlo. Dietro di noi, non ha altro da fare, tornerà a casa anche Fini. Bersani invece dovrà dire di no, altrimenti gli salta per aria il partito. E il gioco è fatto.
Ma Berlusconi non s’è fidato. Se mi dimetto, ha ragionato a voce alta, chi mi dice che quei due non si alleano di nuovo per darmi una fregatura, e chiedere un governo di centrodestra non guidato da me? Di qui, mercoledì, la richiesta all’Udc dell’appoggio esterno: sorprendente per Casini, che l’ha subito respinta, e imprevedibile da uno come il Cavaliere che ha sempre rifuggito le tattiche da Prima Repubblica. Avuto chiaro che Casini, per muoversi, non rinunciava all’apertura formale della crisi, al Cavaliere non è rimasto che il governo di minoranza.
Ora, ammesso che in una situazione talmente confusa si riesca a pilotare una votazione in cui Pdl e Lega riescano a far respingere la sfiducia con 306-308 voti e un margine minimo di vantaggio sulle opposizioni, cosa se ne farebbe Berlusconi di un tale governo? Nella lunga storia parlamentare repubblicana infatti, non esistono precedenti. Capitò a Prodi, ai tempi della sua prima esperienza e dell’ appoggio altalenante di Bertinotti, di trovarsi in una congiuntura simile, ma gli venne in soccorso Diliberto con la scissione da Rifondazione. Durò poco. Il suo successore D’Alema, pur di avere una vera maggioranza, non esitò a reclutare Cossiga, Mastella, i "Quattro gatti", e perfino l’ex-missino transfuga Misserville. Che divenne sottosegretario, fu accusato per questo da Fini di essere un "puttano", e dopo aver rivendicato con orgoglio di essere rimasto fascista, dovette dimettersi dal primo governo guidato da un post-comunista.
Ma a parte questi non fulgidi esempi, che rimandano all’endemica debolezza degli esecutivi di centrosinistra, per il resto c’è stato di tutto. Governi balneari come quelli di Leone e Rumor, destinati a sopravvivere un’estate. Governi "amici", come quello di Pella, con cui la Dc manteneva le distanze. E ancora, monocolori cosiddetti "di decantazione", a cui le correnti democristiane davano e toglievano l’appoggio in attesa dei congressi: le vere sedi, fuori dal Parlamento, dove si decidevano gli assetti del Paese.
Prima e dopo, c’erano stati i famosi governi delle "convergenze parallele" di Moro con i socialisti, e quello di solidarietà nazionale di Andreotti, che per consentire ai comunisti di appoggiarlo senza votarlo, si inventò la "non sfiducia", cioè l’astensione, di tutti i gruppi che lo sostenevano. Bene: pur trattandosi della più larga coalizione mai creatasi in Parlamento, oltre il novanta per cento dei parlamentari, le diffidenze interne non mancavano.
La gestione quotidiana di questa maggioranza sui generis era affidata a Franco Evangelisti, il fantasista braccio destro di Andreotti, e a Fernando Di Giulio, il brillante vicecapogruppo del Pci, dal momento che il capogruppo, Alessandro Natta, aveva giurato pubblicamente che con un democristiano non avrebbe preso neanche un caffè. A una delle prime riunioni nello studio di Evangelisti, il capogruppo socialista Vincenzo Balzamo notò che Di Giulio si dirigeva con sicurezza verso il bagno, come uno che conoscesse da tempo l’appartamento. Così intuì che i due plenipotenziari, democristiano e comunista, si frequentavano anche al di fuori delle riunioni ufficiali, e s’insospettì. Avvertito da Balzamo, anche Craxi se ne dispiacque e cominciò a prendere le sue contromisure.
In una rassegna tanto varia di formule, tuttavia, di governi di minoranza non c’è traccia. Per una ragione abbastanza semplice: i governi italiani stentano già quando hanno la maggioranza, figurarsi quando non ce l’hanno più. Berlusconi è il primo a saperlo: ed è per questo, non è difficile intuirlo, che non vorrà restare a lungo in una posizione palesemente scomoda. Se riuscirà davvero ad avere la fiducia del Senato e una mezza fiducia della Camera, le userà innanzitutto per proclamare in tv di aver sconfitto Fini. Successivamente, e ufficialmente per senso di responsabilità, il governo s’impegnerà a portare all’approvazione il cosiddetto decreto "mille proroghe", se possibile la riforma universitaria, e i decreti del federalismo, che per la Lega sono una ragione di vita o di morte. E finalmente, all’inizio del 2011 salirà al Quirinale per chiedere le elezioni.
Una partita assolutamente nuova si aprirà a quel punto per il Capo dello Stato: quella di un governo che sta in piedi, seppure su una gamba e mezza, ma vuole ripresentarsi davanti agli elettori. E’ presumibile che Napolitano voglia fare un approfondimento. Ma se, legittimamente, obiettasse che si possono sciogliere le Camere solo quando non c’è più una maggioranza, Berlusconi ha pronto l’ultimo colpo di scena: sarà Bossi ad aprire per conto suo una vera crisi. E ad innescare la scintilla finale della legislatura.