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 2010  novembre 26 Venerdì calendario

IL CALVARIO CHE IL PAESE NON PUÒ PERMETTERSI

LA RIFORMA dell’università è diventata un calvario. Sul suo testo si scatenano ormai ogni giorno nuove alleanze trasversali, che naturalmente negano ma di fatto tengono l’occhio puntato assai più agli sviluppi politici che succederanno al voto di fiducia di metà dicembre, che a una seria coerenza di fondo del provvedimento di riforma. Capita così che norme e principi sui quali il giudizio delle stesse componenti politiche era ancora convergente solo poche settimane fa e compatto nei voti espressi al Senato mesi fa, vedano invece improvvisamente germinare e prodursi soluzioni totalmente diverse.
Tutto ciò su un testo complessivo che già nelle letture precedenti, in Commissione alla Camera e complessivamente nel primo esame al Senato terminato a luglio scorso, ha subito forti annacquature e pesanti alterazioni, rispetto all’impianto originale datole dal ministro Gelmini. Un impianto che effettivamente rappresentava una svolta profonda dopo quattro decenni di esperienze negative, attraverso correttivi come per esempio in materia di governance aperta ad esterni e non esclusiva dei docenti, procedure di commissariamento degli atenei in deficit, forte ritorno al riaccorpamento tra facoltà e sedi invertendo la negativissima realtà fatta di proliferazione municipalistica di sedi, dipendenti e nuovi insegnamenti a migliaia.
Purtroppo, la gara di ex componenti della maggioranza a discostarsi dal testo si è sin qui esercitata anche sul riconoscimento delle richieste economiche a questa o quella figura del mondo universitario. Col risultato che, essendo il contenimento complessivo dei costi uno dei punti più qualificanti e insieme impopolari della riforma, la protesta nelle strade e sui tetti se n’è vista ancor più incoraggiata. Così da una parte il ministro Gelmini ha avvertito che, così proseguendo, se la riforma verrà stravolta su punti di fondo, potrebbe ritirarla. E l’opposizione da parte sua si sente ancor più forte nella sua richiesta di, appunto, non farne più niente. Il rischio generale è dunque per l’ennesima volta di un Paese incapace di affrontare qualunque nodo serio della sua vita pubblica. Un Paese che preferisce rinviare ogni riforma in nome dell’urlio contrapposto, pensando di lucrare consenso dando colpa alla controparte politica, è un Paese che perde sempre di più l’ultimo treno dello sviluppo.
A questa situazione già poco consolante, ieri si è aggiunto il paradosso finale. Il voto finale della riforma atteso ieri a Montecitorio non c’è stato, è slittato a martedì per un emendamento dell’Italia dei Valori. Un emendamento giusto per il tema che solleva, ma paradossalmente sbagliato per il modo in cui l’affronta. Mirando a colpire con forza l’immaginario popolare, e a mettere per questo in forte difficoltà chi non lo votasse. L’emendamento infatti propone seccamente che nessuno possa concorrere a cattedra in una sede universitaria, se parente fino al terzo grado di chi già v’insegna. È una misura volta a colpire la piaga di parentopoli, com’è ovvio, cioè la prassi nepotistica in cui in parecchi Atenei si risolve il meccanismo di cooptazione: che non è limitato a discepoli e protetti organizzati in cordate, che spesso costituiscono i veri ostacoli all’assegnazione di cattedre insegnamenti a chi avrebbe maggior titolo di merito invece che quello maturato nel vassallaggio. Si è letto di fior di facoltà e fior di Università, nelle quali non i sodali, ma i parenti in cattedra si sprecano. E l’Italia dei Valori, fedele ad un suo costume in cui a colpire un bersaglio meglio usare l’artiglieria perché fa più rumore, ecco che ha proposto un emendamento ammazza-parenti. Ottenendo subito che l’Udc come la Lega, pezzi di maggioranza oltre che di opposizione, dichiarassero la loro considerazione.
Senonché il problema sollevato è giusto e anzi giustissimo. Ma così scritto ed eventualmente approvato, l’emendamento sarebbe anticostituzionale, in violazione del diritto fondamentale all’eguaglianza. Devono essere altri i metodi, nell’abilitazione nazionale e nell’assegnazione di cattedra nelle sedi, attraverso i quali presidiare merito ed eccellenza. Senza escludere che un figlio di luminare cattedratico possa diventarlo anch’esso, ma senza per questo solo titolo fargli scavalcare per compiacenza delle commissioni giudicanti coloro che avessero più merito del suo.
È addirittura elementare, il buon senso di questa nostra considerazione. Eppure, la riforma è slittata a martedì. Perché quando si inizia a perdere il filo di ogni discorso concreto ma tutto diventa pregiudizio e schieramento, anche le questioni più serie rischiano di trovare solo soluzioni apparenti invece che sostanziali, per il solo fatto di apparire meglio in grado di reggere un titolo sparato di telegiornale.