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 2010  dicembre 02 Giovedì calendario

BENESSERE ALL’ITALIANA


Cina più 10 per cento. Stati Uniti più 2,6. Germania più 3,3. Italia più 1,1. Numeri aridi e criptici quelli del Pil. Che creano attesa spasmodica tra ministri, industriali e banchieri. Le famiglie vedono scorrere la sequela di cifre sullo schermo tv. Non capiscono, ma si adeguano. Lo vedono da anni. Perché da sempre il prodotto interno lordo (i dati in apertura si riferiscono alla previsioni dell’"Economist" per l’anno che si sta chiudendo) viene ritenuto il principale indicatore, forse il più oggettivo. A "inventarlo" fu l’economista americano Simon Kuznets negli anni Trenta. O meglio, il Pil nacque grazie ai suoi studi durante la Grande Depressione per creare un sistema di contabilità nazionale, un pilastro su cui si basano da sempre le statistiche economiche e, di conseguenza, le decisioni politiche prese dai governi. Ma basta, oggi, a spiegare se un’economia va bene o male, se esista o meno un progresso della società? "Molte cose sono cambiate dal dopoguerra a oggi", dice Jean Paul Fitoussi, economista che ha fatto parte della Commissione voluta da Nicolas Sarkozy: "Bisogna trovare indicatori complementari al Pil. L’aumento continuo della precarietà nei paesi ricchi e la crescita delle disuguaglianze vanno tenute in maggior considerazione. Il Prodotto interno lordo può anche espandersi grazie al lavoro precario, ma questo riduce di certo il benessere della popolazione e la gente è scontenta. Per cui è una stupidaggine calcolare solo il Pil".
La Grande Recessione seguita al fallimento della Lehman ha dunque fatto rifiorire proposte e idee alternative agli indicatori tradizionali. L’ultima sortita è della scorsa settimana e viene dal primo ministro britannico David Cameron, secondo cui il benessere dipende anche dalla cultura e dalla felicità dei cittadini. Proprio adesso che l’economia inglese è al tappeto e in pieno regime di austerity, il giovane tory di Downing street ha chiesto alla responsabile dell’istituto di statistica, Jil Matheson, di procedere al censimento della felicità britannica. Una pista già battuta dal citato Sarkozy l’anno scorso quando, con clamore mediatico e grandi attese, formò la supercommissione che doveva calcolare il benessere dei francesi. Ne facevano parte, oltre a Fitoussi, i premi Nobel Joseph Stiglitz e Amartya Sen. "Più informazioni si hanno sull’economia e sulla società, meno difficile è prendere decisioni di politica economica", spiega Fitoussi. Certo, può essere rimasto deluso chi si aspettava un nuovo indicatore sintetico che sostituisse completamente il Pil. La commissione ha snocciolato 12 raccomandazioni generali del tipo: bisogna considerare redditi e consumi delle famiglie e non tanto la produzione, come succede ora; si deve dare enfasi alla distribuzione del reddito; bisogna estendere la misura ad attività non di mercato come possono essere i servizi in famiglia, la cura degli ammalati e degli anziani; si deve tenere conto della sostenibilità ambientale per misurare la crescita al netto della distruzione di risorse e i rischi del cambiamento climatico. E via dicendo.
Sarkozy e Cameron non sono isolati. Sull’argomento si sono esibiti negli anni più recenti anche la Commissione europea e l’Ocse. Persino le Nazioni Unite, con l’indice di sviluppo umano, che ha avuto un certo successo e contempla la speranza di vita, l’educazione e il Pil: qui l’Italia risulta 23esima nel mondo. In Australia il ministro del Tesoro ha valutato gli interventi di politica economica partendo da studi sul benessere dei cittadini. E in Italia? Silvio Berlusconi non sembra emozionarsi all’idea di conoscere benessere e felicità degli italiani. Anche perché più preoccupato (e si immagina soddisfatto) del proprio. Mentre il più acceso sostenitore di cambiamenti è lo stesso presidente dell’Istat, Enrico Giovannini, convinto che un numero solo (appunto il Pil) non racconti abbastanza la realtà nazionale. A un convegno della Fondazione FareFuturo Giovannini ha recentemente detto che l’Istat sta facendo una ricerca per misurare il progresso partendo dallo schema "francese" di Stiglitz e dell’Ocse.
Non a caso, tra i suoi consiglieri c’è lo stesso Fitoussi, che la settimana prossima presenterà al Forum sulla nutrizione organizzato dalla Barilla a Milano l’elaborazione di un indice che ha come punto di partenza il lavoro fatto da lui, Stiglitz e Sen per l’Eliseo. Suggerendo in un rapporto di 117 pagine ricco di numeri e grafici, l’analisi di una gamma di variabili ampia e di natura diversa per valutare il benessere. Si tiene conto, per esempio, di salute, istruzione, qualità della democrazia, ambiente, consistenza delle reti sociali, oltre che naturalmente del reddito e delle condizioni economiche in generale. Nel confronto internazionale fatto tra un totale di dieci paesi tutti del mondo sviluppato (vedi il grafico a pag. 157) l’Italia finisce solo al settimo posto con un punteggio di 4,81, poco sotto la media (il minimo è 1 e il massimo 10). È dietro ai principali partner europei mentre supera, e questa è l’unica sorpresa, gli Stati Uniti. La sostanza del risultato è che gli indicatori presi in considerazione dallo studioso non cambiano molto la posizione del Bel Paese nella graduatoria delle economie più ricche. "Si conferma la buona qualità del sistema sanitario in Italia e Francia", sottolinea l’economista, "e allo stesso tempo sono ribaditi i problemi nell’educazione, nelle infrastrutture e nel sistema democratico". Problemi ai quali, dice lui, si può rimediare. Quindi? "Per noi è una prova che l’approccio utilizzato dalla Commissione Sarkozy è robusto, perché arriviamo con indicatori diversi agli stessi risultati".
Dieta mediterranea, aspettativa di vita e buona salute (indicatori dove l’Italia riesce a ben comportarsi) non sono dunque sufficienti a cambiare le carte in tavola. E neppure tanto la ricchezza accumulata dalle famiglie controbilanciata (in negativo) dal reddito medio pro capite: tant’è che nel grafico relativo al benessere materiale battiamo solo greci e spagnoli (primi sono i danesi). E se si vanno a vedere gli indici relativi al benessere educativo (dove si calcolano sia il numero medio annuo di laureati sia il punteggio pisa, il programma internazionale di valutazione degli studenti) o sociale e politico solo la Grecia fa peggio di noi. Non bastano pizza, sole, longevità e il buon umore a risollevarci dalle statistiche di arretratezza.