Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2010  dicembre 02 Giovedì calendario

MA DOV’È QUESTO CRAC

(Colloquio con Luigi Spaventa) -

Il vento irlandese spazza l’Europa, travolge la fragile ripresa del Continente, sconvolge le Borse, e soprattutto si abbatte sull’euro, umiliandolo con il sospetto di desideri di fuga e sollevando mille dubbi sul suo futuro. È davvero come dice il Nobel per l’economia Michael Spence, questa è l’ultima lezione per gli europei, o rinsaldano le fila o soccombono, oppure - come suggerisce un altro economista, Paolo Savona - occorre cercare un piano B e immaginare l’addio alla moneta unica europea?
"Come diceva un poeta latino, nec tecum nec sine te vivere possum: non posso vivere né con te né senza di te. Questa è la triste situazione dell’euro". Ex ministro del Bilancio nel governo Ciampi, ex presidente della Consob, professore di economia politica, Luigi Spaventa non ha la fama di ottimista, ma - battute in latino a parte - alla fine dell’euro non crede. Come non crede al crac imminente dell’Italia sulla scia degli altri paesi raggruppati sotto l’infame acronimo di Pigs: dalla Grecia all’Irlanda già in pieno marasma, fino al Portogallo e alla Spagna di cui si vogliono intercettare i primi scricchiolii.
"Precisiamo i dati legali", dice pragmatico: "In base ai trattati non è possibile uscire dall’unione monetaria senza uscire dall’Unione europea - senza uscire dunque dal mercato unico e senza rinunciare alla politica agricola comune e ai fondi di sostegno. Ma chi vorrebbe uscire anche dall’Unione europea? È difficile concepire una simile rivoluzione. Un’uscita solo dall’euro sarebbe politicamente concepibile solo se vi fosse l’unanimità di tutti i paesi dell’Unione. Quanto alla convenienza: a chi converrebbe? Alla Germania?".
Per esempio.
"Vediamo: se un paese uscisse dall’euro che farebbe? Svaluterebbe immediatamente la sua valuta. La Germania quindi con la fine della moneta unica si troverebbe con un marco fortemente rivalutato verso tutti gli altri. In realtà la Germania, che oggi tanto protesta, ha tratto una notevole convenienza dal fatto che gli altri, meno disciplinati, hanno avuto un maggiore aumento del costo unitario del lavoro e dei prezzi. E se, ammesso e non concesso che fosse possibile senza sfasciare l’Unione europea, uscisse la Germania da sola? Ancora, il nuovo marco si rivaluterebbe sul vecchio euro. Detto questo, penso che l’unione monetaria mostri tutta la sua fragilità".
Dove sta il difetto maggiore?
"Si è occupata solo del profilo fiscale e non degli altri fattori di squilibrio dell’area. La crisi non l’ha provocata solo la Grecia e basta: questa è stata la scintilla, un caso estremo di bugie continue sulla reale situazione del bilancio pubblico. E vale ricordare che fino al 2007 Irlanda e Spagna erano modelli di virtù fiscale: bilancio in pareggio e debito pubblico tra i più bassi dell’Unione e tutti a dire: vedi come sono bravi quelli. Peccato che stavano commettendo spropositi sul versante dell’espansione del credito, inseguendo il boom edilizio. Di questa espansione senza freni del credito non si occupava la Commissione, e neanche la Banca centrale europea. Un’espansione che li ha portati al fallimento. La tigre celtica è diventata un topolino".
Eppure oggi non resta che salvarli. O no?
"L’Irlanda meriterebbe qualche punizione. I suoi guai derivano anche dalla mossa che fece nel 2008, nel pieno della crisi, quando decise, senza consultazioni con i partner europei, di dare copertura al 100 per cento ai crediti vantati verso le banche. È questo che le sta costando caro oggi. Se potesse dare una sforbiciata ai creditori delle banche, starebbe meglio".
C’è chi sostiene che all’Italia converrebbe uscire dall’euro, che la condanna alla deflazione, e non le permette di imboccare la ripresa.
"Noi abbiamo un debito pubblico in euro: se si rifà la lira, che ne facciamo? Denominarlo in nuove lire è l’equivalente di un default, i tassi di interessi in lire da pagare sarebbero immensi".
È solo perché il nostro debito è troppo alto che non conviene uscire?
"Si usa pensare così: usciamo, svalutiamo, diamo una bella spinta alle esportazioni. Sbagliato. Non solo il debito pubblico, ma tutti i contratti sono stilati in euro: si cambia valuta, ma i creditori hanno diritto di avere l’osservanza dei contratti nella valuta in cui erano stati fatti, cioè in euro. Sarebbe una situazione ingestibile".
Un po’ d’inflazione non ci aiuterebbe?
"Sbagliato. Il nostro debito pubblico ha una durata media di sette anni, in parte è indicizzato ai tassi di interesse, un po’ è indicizzato all’inflazione. Il sollievo non ci sarebbe perché aumenterebbero subito i tassi".
Che strumenti bisognerebbe mettere in campo per rafforzare le difese europee?
"Abbiamo avuto un periodo di vent’anni di sviamento della teoria economica: le banche centrali avevano deciso che bastava controllare le aspettative d’inflazione, ritenendo che il credito fosse una variabile irrilevante. Invece è proprio il credito sfrenato in alcuni paesi, non controllato da nessuna autorità né nazionale né europea, che spiega per due terzi i guai attuali. Da noi il credito è rimasto sotto controllo. Il nostro guaio è che, come la Spagna, abbiamo perso competitività, ma senza crescere, come pure la Spagna ha fatto".
Apparteniamo al club dei Pigs, e siamo quindi un prossimo target?
"Noi siamo molto meglio dei Pigs. E poi siamo i quinti nella lista".
Preferisce non lanciare allarmi all’opinione pubblica?
"Gli allarmi privi di fondamento rischiano di impaurire la gente e di causare, senza ragione, esiti dannosi".
Però oggi noi dobbiamo salvare le banche sulla pelle della gente: le sembra giusto?
"Non sarebbe male se ogni tanto una banca mal messa fallisse. Il guaio è che non si possono sempre valutare gli effetti sul resto del sistema".
Qualcuno sostiene che anche se in Italia abbiamo un debito pubblico alto, le famiglie sono poco indebitate e questo ci protegge.
"In parte è vero, ma più del 50 per cento del nostro debito pubblico è detenuto all’estero. Quindi è molto volatile".
Non dovremo noi risparmiatori accollarci il crac del paese?
"Non vedo il crac. E la ricchezza delle famiglie italiane, anche se è mediamente alta, è tutta distribuita verso quelli che hanno il reddito più alto. I poveracci non hanno soldi al pizzo".
È ancora vivo il ricordo della manovra del governo Amato che fece un prelievo una tantum sui conti correnti.
"Come avere il minimo introito con il massimo costo, un provvedimento che non stava in piedi".
Secondo lei come sta tenendo la barra dei conti questo governo?
"Aver resistito alle pressioni di far aumentare le spesa pubblica per sostenere la congiuntura è stato saggio".
Quindi non vede imminenti attacchi della speculazione all’Italia?
"Lo spread dei nostri titoli del Tesoro non è poco ma non è nemmeno così spaventoso. Oggi c’è un termine molto in voga sui mercati: flight to safety, la fuga dei soldi verso la sicurezza. Bund tedeschi o Treasury americani, pur avviandosi l’America ad essere il paese più indebitato del mondo e con la situazione fiscale meno sostenibile".
Come mai la gente si fida?
"Perché gli Usa esercitano la loro egemonia di valuta di riserva. La gente compra i Treasury e li ritiene sicuri".
Non lo sono?
"Fino a quando?".