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 2010  novembre 25 Giovedì calendario

GIOSETTA FIORONI, "DALL´ARTE AL TRADIMENTO LA MIA VITA CON PARISE E L´ODORE DELL´AMORE"

Giosetta Fioroni è una donna dolce. Goffredo Parise - che fu il grande amore della sua vita - una volta la definì un´artista buona. Nessun artista amerebbe sentirsi definire "buono". La vera arte quasi mai edifica, concilia, mette d´accordo. La vera arte è un problema etico e non una soluzione etica. Questo Giosetta Fioroni lo sa perfettamente e mentre parliamo - nel suo studio romano - seduti davanti a un lungo tavolo, confortati da una tazza di the, mi mostra alcuni lavori del passato, anche quello più recente. E allora credo di capire che cosa Parise intendesse dire con la parola "buono": un´artista che non ha rinunciato a una relazione positiva con il mondo. Anche nel più cupo dei drammi, anche nella più estrema disperazione si può cercare un senso di rinascita. Una forma di vita. «Ho quasi ottant´anni, e una passione per la vita», dice. «Mi piace tutto quello che faccio. Mi piace il mio studio, il mio cane, i miei assistenti, le mie ore passate tra i ricordi e i progetti. I vecchi, in genere, non amano la vita. Si sentono in credito, traditi, rancorosi. C´è invece in me un´euforia adolescenziale, che non so spiegarmi. Ho continuato a giocare - fino a un età in cui di solito una ragazza cerca marito - con un´enorme bambola che aveva confezionato mia madre. Ho prolungato la mia adolescenza finché ho potuto e oggi so che ha contribuito alla mia salvezza».
Salvata da cosa o da chi?
«Dalla mia parte oscura, dall´ombra che mi fa paura. Una volta Giuliano Briganti disse che in me convivevano le fate e i mostri. Sono immensamente grata alla mia famiglia che mi ha amato in maniera morbosa. Ma so che questo ha provocato in me un contraccolpo, un sentimento di acutissima paura che Goffredo nei momenti migliori del nostro rapporto è riuscito a placare».
Quando ha conosciuto Parise?
«Nel 1964. Ci incontrammo a casa di amici comuni. Io stavo ancora con Germano Lombardi. Quella sera, Goffredo fu provocatorio. Disse che era stato lui a chiedere alla padrona di casa di invitarmi, perché voleva conoscermi. Fece commenti sulle mie scarpe, sul mio vestito. Gli chiesi a cosa dovevo quel suo interesse. Mi rispose che era uno scrittore curioso. Mi spiattellò tutto questo con un tono impettito, poi girò i tacchi e se ne andò. Rimasi vagamente interdetta».
La sua forse era solo timidezza.
«Non credo. C´era in lui una leggera insolenza. Non lo cercai, né mi cercò. Qualche tempo dopo ci rivedemmo da Cesaretto, un ristorante dove si andava spesso. Ricordo che ero sola e quando feci il mio ingresso, vidi che al tavolo con Germano sedeva Marina Bulgari. Si vedeva lontano un miglio che i due erano innamorati. Ero irritata. Non volevo rimanere un minuto di più. Mi girai per andarmene, quando sentii la vocetta di Goffredo che era seminascosto: "Ha visto che il suo fidanzato si è messo con un´altra?". Non me ne frega niente, risposi. "Benissimo, allora dove vuole andare a cenare?" Finimmo in un ristorante giapponese. Non sapevo se essere felice o se scoppiare a piangere».
Era alla fine di una storia, no?
«Con Germano vivemmo insieme per sette anni. Era una persona speciale, ma votata all´autodistruzione. Divenne un alcolizzato. Voleva essere riconosciuto per il suo lavoro di scrittore. Io gli dicevo che era bravo, ma che era un intellettuale per palati fini. Mi accusava di non avere fiducia nelle sue qualità. Gli dicevo: guarda che anche Robbe-Grillet è uno scrittore bravo e per pochi. Non si dava pace. Il nostro periodo più bello furono gli anni trascorsi a Parigi».
Quali?
«1957-58, mi sentivo molto libera. Parigi stava chiudendo, almeno nella pittura, il suo momento creativo. New York stava diventando la nuova Mecca dell´arte. Ma per tutto il resto Parigi era ancora il cuore delle emozioni. Per la letteratura, la filosofia, il cinema, era un continuo di novità e di sorprese. Ricordo che la sera si andava spesso al "Petit Dôme". Lì, capitava di incontrare Samuel Bekett. Era quasi sempre solo, parlava pochissimo e beveva whisky. Teneva gli occhi bassi e quando li alzava, vedevi due stelle che ti trafiggevano. Di lui mi colpì il particolare che anche di inverno non portava calze. Una volta mi soffermai su questo dettaglio e lui disse: "Sta guardando le mie gambe?", sì, le trovo bellissime, risposi. Volse lo sguardo altrove. Era essenziale, come la sua opera».
Sembra attratta dall´anticonformismo letterario.
«E´ vero, mi piace sentire la forza della parola spinta all´estremo. Ora, ad esempio, ho preparato una mostra su Paul Celan, il poeta che si è suicidato gettandosi dal Pont Mirabeau, nella Senna».
Poeta difficile.
«E´ la sua parte materica che mi ha affascinato. Ho usato legno, porcellana rotta, capelli veri, aghi di porcospino. La poesia di Celan mi ha colpito per la sua fisicità fatta di acqua, neve, buio, notte, gelo, pietra, cristallo, respiro. E´ un poeta di sostantivi più che di aggettivi».
Un altro poeta sul quale ha lavorato è Andrea Zanzotto.
«Tutto in lui sembra sghembo, nascosto, senza connotati. Ma basta che prenda quota perché esca la sua grandissima personalità. Ha una curiosità verso tutto: la geologia, la matematica, la pittura».
Tornerei a Parise, con lui è stato un rapporto lunghissimo. E´ così?
«Quasi venticinque anni, tra alti e bassi come accade a chiunque condivida una storia lunga. Era una persona inquieta, detestava annoiarsi, e a un certo punto si innamorò di un´altra. Cose che accadono».
Lei come reagì?
«Fu molto sincero. "Mi sono innamorato di una ragazza", disse. E allora vattene, gli risposi. Mi prese alla lettera, riempì la borsa con i suoi pochi indumenti e se ne andò. Non me lo aspettavo. Ho sofferto come non mi era mai accaduto. Continuavo ad amarlo. Ma ho anche una natura vitale. Ricordo che, a quel tempo, andai a stare a Bologna, dove avevo dei cugini. E una sera, presa dalla disperazione, mi vestii con dei tacchi vertiginosi, le calze a rete, il trucco. Insomma ero molto avvenente e mi dissi: voglio provare a battere, voglio capire se piaccio o no. Sentivo rabbia, vergogna e frustrazione».
E cosa accadde?
«Entrai in un bar e rimorchiai quasi subito un ragazzo. Era uno studente, col quale andai a letto. Ricordo che viveva in una pensione. Ero sgomenta per quel gesto. Non mi piaceva, ma provai anche un senso di liberazione. Quando Goffredo mi telefonò - lo faceva spesso per chiedermi come stavo - gli dissi che avevo incontrato un ragazzo col quale mi sentivo rinata. Poi, gli misi giù il telefono. Tre ore dopo era a Bologna. "Allora c´hai uno?", disse. Ma che ti frega, risposi. Restò per tre o quattro giorni a ronzarmi intorno e a lamentarsi. Poi cominciammo a vederci di nascosto. Se ami qualcuno sei disposto a fare cose che non immagini».
Anche a tradire l´altro?
«Ma non era un tradimento. Le cose si complicarono quando incontrai uno che davvero mi piaceva e questo scioccò Goffredo al punto che scrisse quel libro, L´odore del sangue, nel quale raccontava la storia di me e di quel ragazzo. Alla fine, io e Goffredo, tornammo insieme. A un certo punto, cominciò a stare male e negli ultimi mesi di vita mi diceva: "quel libro buttalo via, buttalo che ha distrutto la mia esistenza". Distruggilo te, gli dicevo. Poi, volle rileggerlo. Ci ripensò, mi disse che il romanzo non era male. E che nonostante parlasse di noi, in maniera intima, doveva sopravvivere».
E lei non ha pensato a distruggerlo dopo la sua morte?
«Per nove lunghi anni l´ho tenuto nel cassetto. Ogni tanto provavo ad aprire qualche pagina: vomitavo o piangevo. Finalmente sono riuscita a leggerlo e a quel punto ho deciso che non l´avrei mai pubblicato. E´ stato Cesare Garboli, al quale lo diedi da leggere, che mi disse: "tu non puoi, per la tua pruderie, far sparire un libro che lui non ha distrutto, scriverò io una prefazione, pubblicalo", ecco come è andata».
Lei ha avuto molti amici tra i critici letterari.
«Ho avuto la fortuna di avere un maestro come Toti Scialoja, e poi, certo Garboli, straordinario e bellissimo istrione, Manganelli, col quale a un certo punto quasi litigammo. Mi scrisse una lettera che esordiva così: "Alla mia carsica Giosetta". Il meraviglioso Ceronetti. Arbasino, scintillante e acutissimo».
So che a un certo punto con Arbasino avete collaborato.
«E´ vero, con Alberto facemmo a Bologna una "Carmen". Fu un disastro. A un certo punto venne giù una tale quantità di fischi che sospesero lo spettacolo. Quel pazzo di Giangiacomo Feltrinelli, che era seduto in platea, si voltò e additando il loggione gridò: "fascisti". Capisce, a Bologna! Intervenne la polizia per difenderlo, perché volevano menarlo di brutto».
E Arbasino come reagì?
«Era bianco come un lenzuolo. Ma fu eroico, ci obbligò tutti a salire sul palco. E lì in scena ci prendemmo un´altra salva di fischi».
Cos´è il successo per lei?
«Se non ci si monta la testa è una cosa che fa abbastanza bene. Però non può essere una religione».
E l´arte, può essere una religione?
«La si può rapportare all´invisibile, e chiamarlo divino. Ma io credo che l´arte è spingersi fino al punto da scoprire il proprio limite. Celan è rimasto in vita fino a quando ha potuto scrivere poesia, e quando non ha più potuto si è ucciso».
C´è un´arte anche nel seppellirsi.
«Se ripenso ai pittori della mia generazione a Franco Angeli, a Tano Festa, a Mario Schifano, li vedo come gli ultimi romantici. E la loro morte è stata un eccesso. Forse saranno ricordati anche per questo. Erano insopportabili, ma i grandi si fanno amare a dispetto della loro insopportabilità. La cosa peggiore che può capitarti è quello che Garboli chiamava la platitude, la piattezza, la banalità, il luogo comune».
Cosa le manca delle persone sparite?
«Qui si apre il capitolo, come direbbe Ceronetti, non della vecchiaia, ma della decrepitudine. C´è un gran buio alle porte. Goffredo è morto 22 anni fa. E ancora oggi mi verrebbe voglia di dialogare con lui e di prendergli la mano. Ci si difende tenendo a bada i propri lutti. Con i miei vecchi, Zanzotto e Ceronetti, ho sempre molto affetto e cura. Ecco, bisogna avere cura dei vivi».