Francesca Bonazzoli, Corriere della Sera 26/11/2010, 26 novembre 2010
QUANDO LA MORTE SI VESTI’ DI PRALINE
Lo scorso settembre i media hanno amplificato l’accusa che, secondo uno dei tanti artisti risentiti contro il successo di Damien Hirst, il teschio di diamanti sarebbe un plagio. Sia l’artista risentito che i mass media che danno voce a queste pseudo notizie dimostrano la loro insipienza: come si può, infatti, parlare di plagio per una delle immagini che da sempre accompagnano l’uomo? Plagio di chi? Di Dio? L’accusa, poi, è tanto più assurda se si guarda all’intera produzione artistica contemporanea internazionale: non esiste praticamente artista che non abbia frequentato l’iconografia del teschio, da Mapplethorpe a Parmiggiani, da Orozco alla Abramovic, da Murakami a Wiktins a Yan Pei-Ming, ognuno ne ha dato una propria interpretazione fino a declassarlo a innocuo sberleffo come ha fatto Bansky che, per il catalogo della mostra dell’amico Damien Hirst, ha disegnato un teschio giallo con le praline di cioccolato Smarties.
Il tema non è mai stato così popolare come a partire dagli anni Ottanta quando la cultura giovanile dark e metal ne ha fatto un simbolo di controcultura, un’icona della street fashion adottata da gruppi punk come i Missit o dalla stilista punk Vivienne Westwood. Basquiat lo aveva addirittura eletto a leitmotiv della propria pittura e oggi il teschio è divenuto un’immagine talmente diffusa che anche un marchio del lusso classico quale Christofle, l’ha usata per un portachiavi d’argento diventato di culto. Ma prima di trasformarsi in un oggetto persino ludico, che piace anche ai bambini grazie alle storie dei pirati, di Halloween e dei fumetti (per esempio le celebri strisce di Teschio rosso o Kriminal), il teschio è stata un’immagine lugubre.
È nel Medioevo che diventa un simbolo di morte, mentre pare che gli antichi non lo usassero in questo senso. Nel IX secolo fa la sua prima comparsa sotto la Crocifissione perché la dottrina medievale sosteneva che il legno della croce proveniva dall’albero della conoscenza del Paradiso e che il luogo dove Gesù fu crocifisso fosse lo stesso della sepoltura di Adamo. Per questo motivo, cioè l’allusione alla caduta, presso il teschio può essere rappresentato un serpente con la mela in bocca. D’altra parte Golgota significa «luogo del teschio» e quindi un teschio sotto la croce non farebbe che illustrare le parole evangeliche. Quando poi sul teschio cadono le gocce del sangue con cui Cristo ha redento gli uomini, lavando così il peccato di Adamo, il teschio è rappresentato capovolto, come fosse un calice e in questo caso è un richiamo all’Eucarestia.
A partire dalla seconda metà del XVI secolo, il teschio, a volte alato, comincia ad apparire sui rilievi tombali e nel secolo successivo si sviluppa nella rappresentazione dello scheletro intero. È in questo momento, cioè nel Seicento, che l’immagine del teschio gode di una fortuna pari solo a quella di oggi. I gesuiti ne consigliavano la contemplazione per gli esercizi di meditazione sulla morte e a questo scopo nascono le immagini di santi in contemplazione mentre reggono un teschio fra le mani, in particolare San Francesco, Maria Maddalena, Girolamo ma anche la Malinconia.
In epoca barocca, in coincidenza con l’affermarsi del genere pittorico della natura morta, tale motivo della meditazione sulla morte si sviluppa in un’iconografia autonoma, quella della Vanitas, memento della transitorietà della vita terrena. Una sua variante è la cosiddetta «Et in Arcadia ego», la quale esprime il concetto che anche in Arcadia, luogo idilliaco per eccellenza, non c’è scampo alla morte. Guercino ne dà un’interpretazione magistrale nel quadro conservato alla galleria Corsini di Roma ma già Poussin dipinge una variante dove il teschio perde importanza e il significato della frase slitta quindi verso un meno macabro: «Anch’io vissi in Arcadia».
Passando all’iconografia del teschio nell’ambito del ritratto, la mano posata su un teschio sta ad indicare che il soggetto è un uomo pio; la corona d’alloro sul teschio significa invece che la virtù e la fama del soggetto ritratto sopravviveranno alla sua scomparsa. Attraverso questi slittamenti di significato l’immagine del teschio racconta dunque anche il rapporto della società con la morte, diventato col passare dei secoli più cinico e irriverente, tanto che da immagine ammonitrice, destinata a far riflettere sulla caducità delle cose, ha ribaltato il suo significato in simbolo dissacrante e beffardo che esorcizza la morte.
Francesca Bonazzoli