Vincenzo Trione, Corriere della Sera 26/11/2010, 26 novembre 2010
L’UOMO CHE INGABBIA LA VITA CON ATROCE SERENITA’
Intervistato da Oriana Fallaci, Salvador Dalí confessa: «Quando entrai all’accademia, studiai le biografie dei grandi pittori e compresi che il loro successo non era dovuto soltanto a ingegno ma alla stravaganza del vivere, a un’accorta pubblicità. (...) Sono uno studioso delle leggi che governano la pubblicità la quale è direttamente proporzionata al successo. Mi dimostri che si può diventare celebri con l’umiltà e io sarò umile». In queste parole è il destino di molti artisti che, nell’epoca della modernità debole, hanno voluto portarsi al di là del ristretto ambito museale, per diventare autentiche rockstar. Si pensi a Andy Warhol. E ai suoi eredi. Da Keith Haring a Jean-Michel Basquiat. Da Jeff Koons a Takashi Murakami. Fino a Damien Hirst.
Analogamente al padre della pop art, Hirst ha due identità: una pubblica e una privata. Dotato di talento comunicativo, ha una straordinaria capacità nel far discutere di sé, nell’alimentare polemiche: molti ricorderanno gli scontri con gli animalisti per le sue installazioni «oscene» e la querelle con un giovane writer che ne aveva sbeffeggiato le intuizioni. Fa dello choc la sua cifra distintiva. Ma è sempre molto attento alle richieste del mercato: oggi è l’artista più quotato del mondo. Un ribelle sensibile al sistema delle gallerie. Ostenta un cinico anti-intellettualismo. Assume posizioni eccessive, infrangendo ogni perbenismo. Sa essere immediato e, insieme, provocatorio. Con abilità pop, ricorre a un linguaggio diretto, di matrice televisivo-pubblicitaria.
I suoi esordi sono segnati dalla creazione di uno stile scandaloso. Siamo nei primi anni Novanta, dominati dalla Young british art. In consonanza con i protagonisti di quel gruppo, Hirst muove dalla lezione dei post umanisti: Francis Bacon e Lucien Freud. Lavora sulla corporeità. All’origine della sua ricerca, vi è un gesto estremo. Taglia a pezzi mucche; cataloga pasticche; assembla mosche e farfalle. In linea con le poetiche della Sensation generation, elabora un realismo radicale. Pensa l’arte come un evento che deve scuotere. Senza ricorrere a metafore o a trucchi, vuole suscitare la seduzione del rifiuto.
Eppure, è distante dal dolore insostenibile che attraversa i dipinti di Bacon e di Freud. Recupera la tecnica del ready made duchampiano; si richiama a citazioni warholiane; si ricollega al gigantismo di Oldenburg, per trasferire queste diverse fascinazioni in una dimensione spettacolare. Si porta al di là di ogni complessità, costruendo opere che si impongono per la loro leggibilità. Una atroce serenità lambisce le architetture di questo enfant prodige, il quale si propone di ingabbiare la vita. Annulla il senso della tragedia. Mira a raggiungere una visione oggettiva. Dispone le sue «icone» in uno spazio senza aria: in una inattesa solennità. Le congela, le immobilizza. Le rende leggere, sospendendole nel vuoto: come accade allo squalo posto in una teca sotto formaldeide. Interviene con la precisione di uno scienziato: tutto è restituito con freddezza analitica. Evita approssimazioni: rispetta una splendente simmetria. Calcola le proporzioni con cura. Nei monocromi neri occupati da mosche, nelle vetrine con animali sezionati e in The Pharmacy — un ambiente invaso da coloratissimi medicinali ben allineati —, compone bacheche che danno l’idea di una compattezza austera. Immette i singoli elementi in strutture modulari. Con uno stile iperrealista e impersonale, cristallizza la quotidianità.
Dietro questa impersonalità, si nasconde l’animo metafisico di Hirst. In fondo, le sue sculture e i suoi quadri potrebbero essere interpretati, innanzitutto, come un memento mori. Si tratta di interrogazioni «assolute»: meditazioni sulla morte spesso avvolte in una patina kitsch. Lontano da ogni concettualismo, Hirst si misura con importanti questioni esistenziali. Sorretto da una vocazione quasi filosofica, si interroga sull’identità — malata, devastata — dell’uomo contemporaneo. Allude ad alcune inquietudini eterne. Senza tradire il suo istinto di profanatore, si iscrive dentro una precisa tradizione storico-artistica (si riferisce soprattutto al Barocco). Come rivela For the Love of God: un calco di platino di un teschio umano, tempestato di diamanti. In questo monumento del cattivo gusto, Hirst si appropria di una figura classica — il cranio, appunto — che indica l’essenza: quel che rimane della vita. E la rende preziosa, sublime. Un modo per desacralizzare la trascendenza, contrapponendo il potere dell’arte alla vanitas.
Questa religiosità segreta accomuna Hirst a tanti altri blasfemi del XX secolo: da Mapplethorpe ad Haring, da Basquiat a Warhol. Quel Warhol che, in un’intervista del 1963, dichiarò: «Mi resi conto che qualsiasi cosa stavo facendo doveva essere morte».
Vincenzo Trione