Goffredo Buccini, Corriere della Sera 26/11/2010, 26 novembre 2010
«RIFIUTOPOLI» DALL’ALTO. CAMION BLOCCATI E SVERSATOI ABUSIVI —
Si apre di colpo come un’unghiata bianca nel verde dei pini, dove non dovrebbe stare. Il nostro elicottero si abbassa verso la cava clandestina, i detriti grigiastri, i sacchi di plastica a cascata, appena sotto le case di Pianura. «Quaggiù ci sono tonnellate di rifiuti, domani portiamo la denuncia in Procura», strilla Michele Buonomo, sovrastando il rumore delle pale.
Siamo partiti da Acerra, da quel termovalorizzatore blu e acciaio a nord di Napoli che un po’ funziona e un po’ no, e tanti guai sta tirando addosso alla città. Nella pioggia di un’altra giornata senza risposte, puntiamo su Terzigno e sul parco del Vesuvio, il teatro delle ultime guerriglie tra Stato e comunità che si sentono marginali e sono decise a difendere con la rivolta la loro nuda vita e una condizione di cittadinanza ormai azzoppata. Ma la prima sorpresa sta qua, appena dopo il grande cratere degli Astroni, il parco adagiato per mezzo secolo accanto al sito più velenoso della regione, contrada Pisani, un tiro di schioppo da Napoli. «Pianura è stata per decenni lo sversatoio di tutta la Campania, quella stessa Campania che oggi dice: non vogliamo i rifiuti dei napoletani, se li tengano loro. Qui la camorra ci ha sguazzato», spiega Buonomo, che è presidente di Legambiente e ci accompagna in questo volo su rogge e grotte, cave e campagne violentate da decenni di subcultura prima dei clan cutoliani e poi delle dinastie casalesi, devastate da padroncini della politica e del mattone, dal ciclo delle costruzioni che diventa subito abuso edilizio e spiana la strada al saccheggio delle terre e delle coscienze. L’ultimo atto del saccheggio sta qui, sotto il nostro elicottero, ed è un ennesimo paradosso: perché quasi tre anni fa questa gente ha fatto le barricate per impedire la riapertura della discarica che dal 1953 al 1996 ha ingoiato, assieme ai rifiuti legali, cadmio e arsenico, piombo, idrocarburi e scorie delle fabbrichette del Nord, e che è tuttora al centro di indagini per troppe morti sospette; la discarica abusiva che sorvoliamo è in fondo la negazione di tutte le lotte e di tutte le inchieste: è la resa. In un bel saggio curato da Antonello Petrillo («Biopolitica di un rifiuto»), un vecchio della zona raccontava così la sua vita, ad aprile 2008: «Sono cinquant’anni che mangiamo verdure e animali contaminati. Nessuno si è mai sforzato di comprendere le nostre ragioni. Mi sento un rifiuto». C’è chi ancora si sforza di renderlo un rifiuto per gli anni che verranno. «Qui qualcuno s’è affittato i terreni per far scaricare la roba… dobbiamo ricostruire la posizione esatta e andare dai pm», dice adesso Buonomo.
Nelle terre dei veleni ogni metro quadrato si tira dietro uno strascico giudiziario, un’ombra di morte. Partiamo da Acerra e, accanto al camino del termovalorizzatore, ecco la vecchia ciminiera biancorossa della «Montefibre». A luglio 2006 un decreto dichiarò il territorio a elevato tasso di inquinamento da diossina. Ora dall’alto si vedono tre grandi parallelepipedi di ecoballe stoccate lì quando l’impianto ancora funzionava al pieno delle sue 1.950 tonnellate al giorno; doveva essere una faccenda temporanea, ma qui tutto ciò che è temporaneo diventa permanente. Il destino delle ecoballe era chiaro da un pezzo. Nel 2004 il commissario straordinario Catenacci spiegava in un’audizione: «La Campania è sommersa di ecoballe. Quando i termovalorizzatori entreranno in funzione ci saranno otto milioni e mezzo di ecoballe giacenti nei vari siti». E il prefetto Pansa nel 2007: «Non sappiamo cosa farne… ci stiamo scervellando per capire come trattarle però continuiamo a produrle». Sarebbero oro, se solo esistessero impianti adeguati a bruciarle, se solo si sapesse cosa diavolo contengano davvero (l’Unione europea sospetta siano farcite da una buona dose di veleni). Adesso le ecoballe sparse in queste campagne sono una specie di monumento all’orrore, come per tanti anni è stato il castello Mediceo di Ottaviano, acquistato dalla famiglia di don Raffaele Cutolo e sede praticamente ufficiale della Nuova Camorra Organizzata.
Ci voliamo sopra, lasciandoci dietro un rosario di mini-discariche e puntando verso Terzigno. Cava Vitiello, bloccata dal governo, è una voragine vuota che forse mai verrà riempita. Cava Sari, che dall’alto ha la bizzarra forma di un cuore prolassato verso un ventricolo, funziona. E si sente: sei scavatrici versano terra sui rifiuti, ma ci vuol altro che terra. Si fa presto a prendersela con la gente di qui e con la sua palese sindrome di nimby (non nel mio cortile): il tanfo avvelenato sale fino ai duecento metri dove volteggia l’elicottero. Le prime case sono a nemmeno mezzo chilometro dalla voragine, dopo i pini. Anche qui i segni degli abusi edilizi anticipano gli sfregi generati da un ciclo dei rifiuti in agonia. «Ci siamo battuti una vita contro le discariche camorriste sul Vesuvio, per farci un parco: metterci adesso una discarica è come dire che aveva ragione la camorra», sbotta Buonomo coi suoi 35 anni di lotte alle spalle.
Lo stesso odore malato di Terzigno si coglie a Chiaiano, nord di Napoli, sulla discarica di Cava del Poligono, dove un anno fa dissotterrarono cumuli di eternit abbandonati da qualche manina criminale. Ma bisogna arrivare nel cielo sopra Giugliano, e sopra Taverna del Re, per contemplare l’implosione del sistema. All’impianto di Giugliano stanno in fila pigramente dodici camion che portano spazzatura di Napoli: non tutti entreranno, tutti lo sanno, tutti gli autisti prenderanno gli straordinari per il viaggio inutile. L’impianto dovrebbe produrre «cdr» (combustibile derivato da rifiuti) ma produce «stir» (una specie di «cdr» di peggiore qualità): sembra lana caprina, ma di questa lana è intessuto il disastro napoletano. Ci sono sette impianti così, qua attorno, e per lo più sono intasati da 61 mila tonnellate di immondizia che non si riesce a incenerire e che altre Regioni hanno gentilmente rifiutato: per questo vanno a rilento. Nel tempo, le ecoballe non smaltite si sono mangiate a Taverna del Re 600 ettari di aree agricole, in cinque chilometri quadrati le discariche sono una trentina. Da lontano, decine di pile di ecoballe stoccate, alte cinque metri e coperte di neri teli di plastica incatramata, sembrano il ciclopico monumento a un faraone megalomane. Comunicano morte, forse non solo per metafora: nell’assenza di controlli la cultura di morte è contagiosa. Qui accanto c’è un grande campo rom. Sui fuochi sempre accesi si bruciano copertoni, computer, trasformatori, rifiuti speciali. A distanza di due mesi, due bambini sono stati uccisi da malattie respiratorie. Ma il fumo continua ad alzarsi nella campagna, come niente fosse successo.
Goffredo Buccini