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 2010  novembre 26 Venerdì calendario

I FRATELLI DI ADELPHI

Un fraterno amico era convinto che andare in giro con un Adelphi sottobraccio gli desse una mano con le ragazze (utilizzo afrodisiaco di libri raffinati). Erano i tempi del liceo, l’insostenibile leggerezza del crescere aveva un certo fascino: l’esperimento diede i suoi frutti molti anni dopo, quando l’amico sposò una bellissima scrittrice. Però questa storia non bisognava raccontarla a Roberto Calasso, nemmeno nel tentativo di strappare il suo sguardo dalla finestra. Risposta lapidaria, abitualmente secca: “Speriamo l’abbiano fatto in tanti”. Occhi fissi sull’albero, oltre la vetrata.
È UNA CASA , appunto editrice, ed è davvero un appartamento, con una trentina di dipendenti. Pieno di libri, naturalmente. Ma sono libri altrui: ne cerchi uno con il loghino cinese scaffale per scaffale (e non sono pochi) ma, niente, nemmeno uno della Piccola Biblioteca dimenticato per caso. Ci sono volumi di tutti i tipi, in tutte le lingue del mondo: mille formati, pagine e fotografie a perdita d’occhio. Si capisce che sei nel loft dell’editoria italiana da un manifesto. Molte copertine colorate, una frase di Elias Canetti: “Adelphi, il più bel catalogo di libri che conosco”. L’autore che ne La provincia dell’uomo mette in guardia “bisogna aver paura delle parole”, era uno che le maneggiava bene. E quella frase, spiegano, è una dedica a Massa e potere. Porte bianche, come si addice a un interno borghese, a due passi da corso Magenta. E armadi di legno scuro di cui nessuno ricorda più la provenienza. Aspetti l’udienza su un piccolo divano con la fodera di seta verde chiaro: sembra per due in realtà ci si sta in uno. E pure un po’ all’erta, anche quando arriva un benvenuto caldo, un caffè fatto con la macchinetta da ufficio ma servito in una tazzina di porcellana invece che nel bicchiere di plastica. Tutto qui è una questione di stile. E di sostanza avvolta nello stile: la collana Nascosti nel catalogo è pensata - si legge nel sito Internet - per “libri magnifici che vivono una vita appartata, in attesa del singolo lettore che li scopra, e che con il tempo diventano sempre meno visibili”. Nell’officina ogni libro ha un capitano che lo segue nella traversata, dall’acquisizione dei diritti allo scaffale: se è in lingua, dopo la traduzione (preceduta comunque da una prova), viene rivisto molte volte. Se è un saggio, c’è la supervisione di uno specialista della materia. I redattori e i traduttori sono per lo più collaboratori da lungo tempo. Alla fine tutto – parole, carta e confezione – si compone in una tipografia di Azzate (provincia di Varese), su cui per molti secoli regnò una famiglia il cui cognome non evoca esattamente parole come cultura, arte o stile: Bossi. Parlar di soldi non è mai elegante (perfino nel Paese che ha fatto del pecunia non olet una religione), ma per togliersi il dente subito, in queste stanze si fatturano più di 25 milioni di euro all’anno.
CLASSE 1963 , Adelphi è tenuta a battesimo da Robinson Crusoe di Daniel Defoe nella collana Classici (e qui è salvifico per chi scrive non domandare se la nascita sia avvenuta di Venerdì). Si comincia sempre dall’inizio, allora fu dall’inizio del romanzo. Nella Biblioteca, la collana più nota, il primo titolo è L’altra parte di Kubin. Intanto la porta dello studio di Calasso si è aperta senza convenevoli. “È stata una partenza non facile, pubblicavamo pochi libri , spesso sconcertanti, così ci sono voluti alcuni anni perché si cristallizzasse l’immagine della casa editrice. Quando è cambiata la percezione dei lettori non lo so, non lo sa nessuno. È una domanda senza risposta. L’unica cosa sicura è che qui si sono pubblicati solo libri che piacevano molto a chi li faceva”.
MAANCHEnel palmo di mano di un’azienda le linee scolpiscono cesure e cambiamenti. E svolte nel sentimento dei lettori. “Forse”, dice Calasso, “all’inizio degli anni ’70, quando è partita la Piccola Biblioteca. Un buon esempio lo può dare ciò che avvenne con Joseph Roth: iniziammo con La cripta dei Cappuccini, che uscì nel 1974 in 3 mila copie, una tiratura media per un autore non noto. E Roth era allora ignoto, anche se qualcosa era stato tradotto. Ma ebbe subito fortuna . Dopo quattro anni Il profeta muto ebbe una tiratura di partenza di 30 mila copie. I librai lo esigevano”. Fu il decennio della Mitteleuropa: arrivano in Italia, via Adelphi, Karl Kraus, Schnitzler, Hofmannsthal, Robert Walser, Wedekind, Horvath, Altenberg. “Qualche anno prima che nei loro stessi Paesi questi autori tornassero a essere letti, abbiamo creato una costellazione dove ciascun autore serviva anche a illuminare gli altri”. Alcuni autori portano fortuna, specie se somigliano a chi li pubblica. Facciamo i nomi: il primo è Sándor Márai. “Fu un caso clamoroso. Con lui siamo andati molto lontano. Abbiamo i diritti mondiali di Márai, per comprarlo devono rivolgersi a noi, in rappresentanza degli eredi. Lo abbiamo appena venduto a un editore di lingua malayalam, le dice qualcosa?". Naturalmente no. “È la lingua del Kerala, una parte dell’India che è abitata quasi quanto l’Italia. Ma è una lingua a parte, che non ha nulla a che fare con lo hindi. C’erano due editori che si battevano per avere i diritti delle Braci (1998, 39 edizioni)”. Poi: Vasilij Grossman, Irène Némirovsky. “Grossman fu una sorpresa. Vita e destino è un libro non facile. Anche solo per trovare una strada tra decine di patronimici russi. Ed era stato già tradotto da Jaca Book, anche se sulla base di un testo che non era quello definitivo. Ma non aveva avuto esito”. Con coraggio, si avanza una similitudine: come Zia Mame di Patrick Dennis (oggetto anche di una polemica giornalistica, un paio di estati fa. Si accusava l’editore di fare cassetta con vecchi titoli tirati fuori dalla soffitta). “Ah sì, quello è un caso paradossale. Perché era un libro dimenticato non solo da noi. Ma dimenticato a casa propria, negli Stati Uniti. Aveva avuto un grande successo, avevano fatto addirittura un film, nel ’59, con Rosalind Russell e una pièce teatrale”. Invece con Tolkien ci si mise di mezzo la sfortuna: “Avevamo chiesto i diritti de Il signore degli anelli, ma la nostra proposta arrivò tardi a Londra: allora non c’era l’e-mail, si faceva tutto con le poste”.
SIDDHARTA , con cui Martina Stella rincorre Stefano Accorsi nell’Ultimo bacio (utilizzo pop di libri profetici), è ancora il più venduto. Due milioni e 300 mila copie per quel volumetto verde? “Verde? Si confonde, il suo colore è artico. Però no, scusi, effettivamente c’è una remota edizione verde, ma in un’altra collana”. Segue Milan Kundera con L’insostenibile leggerezza dell’essere, un milione di copie. Terzo Le nozze di Cadmo e Armonia (600 mila copie) del medesimo Calasso e poi Sciascia con Una storia semplice (500 mila). “Siddharta era nel catalogo di una casa editrice che noi abbiamo comprato negli anni ’60: Frassinelli. Perché aveva dei titoli che c’interessavano molto: Siddharta, Il processo di Kafka, il Dedalus di Joyce e il Moby Dick di Melville tradotti da Cesare Pavese. Per quei quattro libri comprammo Frassinelli, poi abbiamo di nuovo ceduto il marchio”. Si consultano, per le cifre, i cataloghi. Che hanno lo stesso aspetto di un volume della Piccola Biblioteca. I libri sono anche oggetti, gli Adelphi sono oggetti ben fatti. Il logo è un pittogramma cinese (pittogramma della luna nuova) che si vede sui bronzi Shang (oggetti di uso rituale che risalgono più o meno al 1000 a.C.): la figura divenuta marchio di fabbrica vuol dire “morte e rinascita”. Anche la carta è particolare. Senza legno, non ingiallisce con gli anni e accompagna tutte le collane, tranne quella economica e il Ramo d’oro. C’entrerà anche questo? “La veste grafica è importante, non c’è dubbio: ma noi non abbiamo mai avuto un grafico, l’ho raccontato varie volte. L’impianto della copertina della Biblioteca riprende una gabbia ideata da Aubrey Beardsley, conosce?”. Un altro no. “Era un geniale illustratore inglese di fine ‘800. Disegnò anche delle maquettes di copertina. E modificandole un po’ è venuta fuori questa copertina”. Quindi non è vero (ricordo scolasticamente rimbaudiano) che bisogna essere assolutamente moderni? “Ci sarebbe da intendersi su cosa vuol dire modernità. E comunque bisogna essere belli, spero che la bellezza con Adelphi c’entri molto. E la bellezza non è un vizio”. Se lo fosse, non sarebbe assurdo.
NEMMENO in questa stanza, catalogo a parte, ci sono libri di casa. “Non è la mia biblioteca. Questi libri sono ciò che rimane della biblioteca di Roberto Bazlen, le dice qualcosa? Niente? Bè era un signore di Trieste morto nel ’65, colui che fece scoprire Svevo a Montale. Davvero non l’ha mai sentito in vita sua?”. Il cellulare suona. “No, era semplicemente per dirle che quest’uomo è all’origine della casa editrice”. E questo spiega anche lo sguardo verso la Mitteleuropa? “Sarebbe stato lo stesso se fosse nato a Catania. È la testa che conta”. Arriva sulla scrivania un libro: una raccolta di scritti di Bazlen. Un bellissimo epistolario editoriale (letto in seguito) dedicato al mestiere di pubblicare e agli autori: in una lettera Bazlen, che era consulente di Einaudi, consiglia di acquistare L’uomo senza qualità di Musil allo Struzzo. È il 1951. “Sulla base di questa lettera, il romanzo è poi uscito. Ma non sempre gli davano retta, anzi. Era un uomo di immense conoscenze, che aveva una vastissima biblioteca. E a un certo punto la regalò. I libri in questa stanza sono ciò che ne rimaneva negli ultimi suoi anni, quando viveva in via Margutta a Roma. Lui comprava i libri di Kafka quando uscivano, quando era uno scrittore ignoto. Non era un collezionista, era qualcuno che, semplicemente, sapeva. All’inizio degli anni ‘60 con Luciano Foà disegnò Adelphi”. I soci, non è un caso, scelgono un nome che vuol dire “Fratelli, sodali” ed è parola greca. Roberto Calasso che faceva mentre tutto cominciava? “Io ero con loro. C’erano anche Claudio Rugafiori e altre persone connesse, che sono state molto importanti. Come Giorgio Colli: agli inizi, l’impresa più rilevante della casa editrice è stata l’edizione critica di Nietzsche, prima che la facessero i tedeschi. C’erano 3 mila pagine inedite: il nostro primo socio fu Gallimard. I tedeschi arrivarono solo alla fine, avevano paura”. Si scivola sempre verso la fine. Con una domanda: qual è il libro più bello che avete pubblicato? “Dimentichi questo tipo di domande, è pessimo giornalismo. Se uno lo dicesse sarebbe un’offesa per gli altri, soprattutto morti. Sono scorciatoie che non servono a nulla”.
PERÒ POI , a ben guardare, nell’opera di Calasso c’è una traccia dei suoi gusti. E si trova nelle Cento lettere a uno sconosciuto, raccolta dei risvolti di copertina scritti da Calasso. Ce n’è uno proditoriamente rivelatore ed è quello scritto nell’82 per l’edizione del Zhuang-zi. “Se l’umanità fosse ridotta ad avere pochissimi libri (forse dieci, forse cinque) dovrebbe includere il Zhuang-zi. È un’opera inesauribile, perennementeviva,agile,fluida,di una gravità così leggera, di una leggerezza così giusta, priva di ogni pomposità e autorevole come l’origine stessa. Scritto nel IV secolo a.C., è da sempre considerato uno dei grandi classici del taoismo”. Ultima: è vero che in Italia si legge poco? “Ma no, ma no. È una banalità. Mi dia retta, lo dicono quelli che non leggono”.