Giuseppe Berta, Il Sole 24 Ore 26/11/2010, 26 novembre 2010
LA STORICA MIRAFIORI LABORATORIO DEL NUOVO LAVORO
Nei suoi 71 anni di storia, Mirafiori ha avuto molte vite. È stata, nel 1939, all’atto della sua inaugurazione, la fabbrica-manifesto dell’industrialismo italiano, destinata a tradurre nella realtà italiana il modello della produzione di massa di Henry Ford. Dopo la seconda guerra mondiale è stata la fabbrica-simbolo della trasformazione industriale del paese, il gigantesco melting pot di una crescita fondata sulla capacità di attrarre un numero inusitato di persone, richiamate dalla promessa di un lavoro stabile e assiduo. In seguito, è stato il teatro della conflittualità sindacale, assicurando visibilità e risonanza ai movimenti collettivi, fino al 1980.
Dopo di allora e fino a oggi, ha continuato a essere il luogo emblematico della specializzazione torinese nel campo dell’automotive: pur avendo perso il ruolo di "più grande fabbrica d’Italia", secondo lo stereotipo in uso presso la pubblicistica sindacale e politica degli anni Cinquanta, è rimasta come il punto di riferimento di una città che ha ravvisato nell’industria un elemento caratterizzante della propria identità.
Ora Mirafiori è chiamata a essere di nuovo lo spazio a cui deve applicarsi una capacità di progettare l’organizzazione industriale di domani, dimostrando di essere in grado di accogliere e realizzare il cambiamento che la nuova articolazione del sistema globale dell’automobile sollecita.
La trattativa che si apre stamani presso l’Unione Industriale di Torino non è un negoziato sindacale come gli altri. Deve gettare le basi di una nuova organizzazione del lavoro che prevede una diversa regolazione della fabbrica e delle attività che vi si compiono. Deve attrezzare un ambiente per il World class manufacturing, il metodo organizzativo che strutturerà le mansioni lavorative quando diverrà possibile tornare a far girare a pieno regime i meccanismi dell’ingranaggio produttivo. Dovrà così contemperare gli obiettivi aziendali di domani con le caratteristiche di una popolazione lavorativa che ha spesso alle spalle una storia professionale ormai lunga. B astano queste ragioni a far comprendere che non si tratta di un passaggio sindacale su una falsariga già nota, anche se si porta dietro lo strascico delle lacerazioni e delle polemiche che da sei mesi si svolgono attorno allo stabilimento Fiat di Pomigliano d’Arco.
Sbaglia chi crede che il confronto torinese non sia altro che la prosecuzione della vicenda di Pomigliano. Su Mirafiori entrano in gioco altre questioni specifiche, che non possono essere sottovalutate. In particolare, sono almeno tre le dimensioni che il futuro di Mirafiori solleva e su cui il negoziato dovrà contribuire a fare chiarezza.
Il primo nodo è certamente costituito dalla necessità di garantire a Mirafiori una prospettiva, per dischiudere un futuro a un’area industriale che, pur avendo origini lontane nel tempo, mantiene una propria essenziale ragion d’essere. Mirafiori deve vivere perché la sua continuità è una garanzia per l’automotive di Torino: un sistema specializzato e articolato di competenze come quello che si è costituito intorno all’auto ha bisogno della vicinanza con un impianto di produzione di rilievo. L’esistenza di Mirafiori significa un collante efficace per una gamma di funzioni che va dalla progettazione alla presenza sul territorio di una rete di fornitura di primo livello, qualificata e internazionale.
Il secondo nodo che si dovrà affrontare è la definizione di un nuovo schema di orari che potrà incidere in profondità sugli assetti di lavoro. La produzione potrà essere organizzata su 18 turni di sette ore e mezza, come nel caso di Pomigliano, o su una modalità più innovativa, con 4 turni settimanali di 10 ore l’uno, con una pausa poi di tre giorni. Scegliere tra queste modalità sarà di sicuro compito impegnativo perché il tema dell’orario chiama in causa, ancora più di quello del salario, la soggettività e gli orientamenti delle persone, tanto più in una situazione come quella di Mirafiori, dove pesano molto fattori come l’età e il genere, che segmentano la condizione operaia.
In terzo luogo, il negoziato su Mirafiori deve servire a sbloccare le relazioni industriali dall’impasse in cui rischiano di finire. È più che probabile che il mutamento organizzativo entrerà in tensione con la normativa contrattuale esistente e che si affaccerà il problema di costituire una "newco" come quella di cui si è parlato per Pomigliano. C’è da sperare che il confronto non si areni subito attorno a questa soluzione; piuttosto, ci si deve disporre a sperimentare degli strumenti flessibili, che permettano di innovare la normativa senza per questo porsi in radicale contrasto con il contratto nazionale di categoria. Qui soprattutto i negoziatori devono saper dimostrare la loro perizia nell’intraprendere processi e forme di cambiamento che dovranno poi essere verificati nel vivo delle esperienze lavorative e che saranno dunque inevitabilmente soggetti a evoluzione. Insomma, questa trattativa può anche essere un’occasione per rinnovare e rilanciare le relazioni industriali, specie in un’area di forte tradizione sindacale come Torino.
L’auspicio migliore che si può formulare per la trattativa su Mirafiori è che apra un nuovo ciclo di vita per uno degli impianti più longevi del mondo industriale e che restituisca alla fabbrica il suo ruolo di luogo di innovazione e di cambiamento.