Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2010  novembre 26 Venerdì calendario

«PER RIDARE LAVORO AI DISOCCUPATI DOVETE IMPARARE DALLA FRANCIA»

Gli ultimi dati sulle ore di lavoro in
somministrazione diffusi dalle agenzie private in Europa sono incoraggianti. A crescere di meno fra i grandi paesi europei è stato il Belgio (+12,53%), a crescere di più la Germania (+35,5%), con l’Italia a mezza strada. Chiediamo a Denis Pennel, direttore generale di Eurociett (la federazione europea delle agenzie per il lavoro) di fare il punto sul mercato del lavoro “somministrato”. Quello che fino a non molto tempo fa si definiva interinale.
È il primo chiaro segnale che stiamo uscendo dal tunnel? Il fatto che le aziende tornino ad assumere a tempo determinato non significa che il peggio è alle spalle?
«La tendenza che si registra in Europa da diversi mesi è dovunque positiva. Il settore delle agenzie rappresenta un indicatore importante sulla salute economica delle aziende. I lavoratori in somministrazione sono stati i primi a perdere il lavoro quando è cominciata la crisi (nella primavera del 2008) ma adesso il nostro settore è tra i primi a riprendere le assunzioni e a sostenere la ripresa economica. In paesi come gli Usa e la Germania il numero dei lavoratori in somministrazione è tornato allo stesso livello dei tempi precedenti la crisi. Questo è un chiaro segnale che l’economia sta risollevandosi, anche se in Europa la disoccupazione rimane elevata: sono a spasso 23 milioni di persone, vale a dire il 10% della popolazione lavorativa totale».
Ma le prospettive quali sono?
«Laripresaèfragileenondobbiamodarla per scontata. Il settore del lavoro in somministrazione sarà una spia dell’andamento economico generale e sarà il primo a verificare se ci sarà una svolta in peggio o in meglio».
Ma come spiega queste differenze fra Paese e Paese? «Le economie che hanno gestito meglio la crisi sono quelle che hanno riformato il proprio mercato del lavoro e hanno attuato politiche di flexicurity, a cominciare dalla cancellazione delle restrizioni ingiustificate al lavoro somministrato». Lei pensa che il modello danese di flexicurity potrebbe essere esportato in paesi come l’Italia?
«Ciascun paese ha esigenze diverse. Non può esserci una politica unica. Oltre al modello di flexicurity danese, ci sono quello tedesco, quello olandese, quello francese e quello belga. La cosa certa è che i governi hanno il compito di far funzionare il mercato del lavoro con la massima efficienza. Per centrare l’obiettivo la via giusta è attuare delle politiche di flexicurity. È indispensabile offrire a lavoratori e imprese sia la flessibilità sia la sicurezza. Ma l’Italia deve trovare un proprio percorso verso la flexicurity».
In concreto quali potrebbero essere i primi passaggi di questo percorso? «Una revisione del livello di regolamentazione nel settore delle agenzie per il lavoro. L’obiettivo dev’essere quello di raggiungere un giusto equilibrio tra la protezione dei lavoratori in somministrazione e il potenziamento del ruolo positivo che il lavoro somministrato può svolgere sul mercato, in termini di creazione d’impiego e nell’offrire più opportunità di lavoro a un numero crescente di persone».
Lei ha scritto in un recente articolo che stiamo andando vero un futuro in cui ci sarà una sempre maggiore varietà di accordi contrattuali tra datore di lavoro e lavoratore. Questo segna la fine dei contratti collettivi nazionali?
«La varietà crescente di contratti d’assunzione rispecchia il bisogno di maggiore diversificazione sul mercato del la-
voro. Bisogno determinato dal modo in cui le aziende devono organizzare la propria produzione in un’economia globalizzata, ma che rispecchia anche il desidero della gente comune di lavorare in modo più flessibile. Le persone fanno scelte di carriera diverse da quelle del passato e questo si riflette nei contratti che firmano. I contratti a tempo indeterminato esisteranno ancora in futuro, ma rappresenteranno solo una delle diverse opzioni disponibili alle aziende e ai lavoratori».
La fine del posto a vita vuol dire darsi una nuova propspettiva di vita. Quale? «Il contratto a tempo indeterminato non rappresenta più la garanzia di un posto a vita. In Italia, il 50% dei contratti di lavoro a tempo indeterminato viene rescisso entro due anni. La sicurezza del lavoratore non viene più garantita dal tipo di contratto, ma dalla sua impiegabilità e dalla possibilità di scalare verso l’alto il mercato del lavoro».
Recentemente ha scritto che il lavoro non è più un luogo dove si va, ma una cosa che si fa. Svincolare le risorse umane dal processo di produzione significa affidarsi pesantemente al telelavoro. Finora le aziende hanno dimostrato di non crederci. È possibile secondo lei che cambino idea?
«Le tecnologie informatiche hanno il potere di cambiare il dove, il quando e il come lavoriamo, permettendo alle organizzazioni di essere più agili e innovative. Tanto i lavoratori quanto le imprese devono trarre beneficio da questa evoluzione. Ma fa parte di una rivoluzione culturale. Oggi i team di progetto fanno uso di strumenti web incredibili per lavorare assieme dovunque si trovino nel mondo».
Parliamo di potere, consenso e partecipazione. Se si esclude la Germania, dove il modello Volkswagen è molto diffuso, negli altri Paesi il coinvolgimento dei lavoratori è men che marginale. Giusto così?
«Se guardiamo la Scandinavia, i Paesi Bassi o la Germania (ma anche la Francia, il Belgio e l’Austria), vediamo molti esempi del ruolo positivo svolto dagli accordi di lavoro tra datori di lavoro e dipendenti. Sono accordi che costruiscono il consenso e realizzano un ambiente di lavoro più positivo, in cui tutte le parti hanno la certezza delle reciproche aspettative. È essenziale che le parti sociali discutano e giungano a un accordo su come debba essere il lavoro del futuro. Siamo di fronte a una profonda rivoluzione nel modo in cui il lavoro dev’essere riorganizzato e reso sicuro. Le parti sociali sono i soggetti meglio qualificati a condurre questo dibattito. Per quanto riguarda il lavoro in somministrazione, possiamo esibire molte best practices provenienti da ogni parte d’Europa, che dimostrano quanto il nostro settore sia socialmente innovativo. Si pensi per esempio ai fondi bilaterali per la formazione che sono stati creati per facilitare l’accesso alla formazione dei lavoratori in somministrazione (in Belgio, Francia, Italia, Spagna, in Olanda, in Lussemburgo). Si pensi ai fondi bilaterali per la formazione sviluppati in Francia e in Belgio per fornire benefici extrasalariali ai lavoratori in somministrazione. Si pensi ai fondi per le pensioni complementari creati nei Paesi Bassi per i lavoratori in somministrazione. Il settore delle agenzie è impegnato da diversi anni nel dialogo sociale».
Con poche eccezioni neppure la crisi finanziaria globale è stata sufficiente a indurre i Paesi a introdurre riforme sostanziali in campo finanziario e neppure nel mercato del lavoro. Lo faranno mai? «La Spagna è l’esempio di un Paese che invocava le riforme nella legislazione del lavoro anche prima della crisi. I provvedimenti approvati recentemente dal parlamento spagnolo dimostrano che la crisi ha avuto un impatto sulle politiche del mercato del lavoro. Nel 2011 i governi si impegneranno con decisione per attuare la direttiva europea sul lavoro tramite agenzia interinale. In tutta l’Unione europea il diritto del lavoro sarà sottoposto a revisione ed entro la fine dell’anno ogni restrizione ingiustificata all’operato delle agenzie per il lavoro interinale dovrà essere eliminata. Questo è un settore che crea occupazione e viviamo in un momento in cui la creazione di posti di lavoro ha bisogno del massimo sostegno».
Vista la crisi del sistema pubblico di collocamento in Italia si può pensare a un mercato del lavoro in cui lo spazio per le agenzie sia ancora più ampio? «Auspicabilmente vi troverete in un ambiente in cui le agenzie per il lavoro pubbliche e private opereranno fianco a fianco per trovare lavoroaquantepiùpersonepossibile. In Europa ci sono già numerosi esempi di questo tipo. Un buon esempio di questa cooperazione si trova in Francia, dove il Pôle Emploi (il servizio pubblico per l’impiego francese) ha chiesto
il sostegno del settore delle agenzie private per aiutare 320.000 persone disoccupate a reinserirsi nel mercato nel lavoro da qui al 2011. Si possono trovare altri esempi proprio da voi, in Italia, ma anche in Gran Bretagna. È una tendenza da incoraggiare».
Formazione e orientamento al lavoro sono i punti deboli del sistema italiano. Ci sono molti disoccupati, soprattutto giovani, ma le imprese faticano a coprire certe posizioni, soprattutto nell’information technology e nell’impiantistica elettrica. Lei cosa farebbe?
«Le agenzie di collocamento private sanno come trovare i candidati per ricoprire i posti di lavoro disponibili. Dovrebbero essere spronate a trovare la coincidenza tra i giusti candidati e questi profili di lavoro richiesti. Il settore delle agenzieperillavoroèancheimpegnato a offrire ai dipendenti l’accesso alla formazione professionale. Quindi, dopo che abbiamo assicurato il primo impiego a una persona, le diamo anche la formazione necessaria a intraprendere il passo successivo nella sua carriera. Eurociett collabora con la sua controparte sociale del settore, Uni Europa, per individuare e promuovere le good practices che possono servire a migliorare e accrescere le opportunità di formazione nel settore delle agenzie per il lavoro interinale».
Fra contratti a termine (con stipendi più bassi), stage e apprendistato i giovani hanno pochi soldi in tasca. Almeno in Italia. Spendono
poco, si sposano molto più tardi e condividono la casa con amici e colleghi. In questo modo le imprese hanno abbassato il costo del lavoro ma ridotto il potere d’acquisto di una larga fetta di popolazione. Non le sembra una vittoria di Pirro?
«Il lavoro in somministrazione deve essere visto come una buona opzione per i giovani e per coloro che sono da tempo fuori del mercato del lavoro. Offre un modo di accedere all’impiego e permette di costruirsi un’esperienza e ricevere una formazione che faciliti il passaggio al lavoro a tempo indeterminato. Più volte si è dimostrato come il lavoro in somministrazione renda le persone più facilmente impiegabili. In Belgio, prima di diventare lavoratori in somministrazione, il 44% delle persone aveva un impiego, con contratti a termine, a tempo determinato o indeterminato. 12 mesi più tardi lapercentualedellepersoneoccupate è passata al 77%. Questa situazione si ripete regolarmente in tutta Europa, quando entra in gioco il lavoro in somministrazione. È matematico».