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 2010  novembre 25 Giovedì calendario

FUGA DALLE BOMBE DI PYONGYANG - YEONPYEONG L’

arcipelago dei pescatori, ridotto a campo di battaglia dell’ Oriente incapace di uscire dal Novecento, è deserto e le macerie fumano ancora. Le colline dell’ isola maggiore di Yeonpyeong continuano a bruciare nella nebbia fredda che frantuma una luce azzurra e bianca. Sono passate da poco le 10 quando la motovedetta della guardia costiera sudcoreana, salpata da Incheon, attracca in un porto vuoto. Anche la navigazione nel Mar Giallo, sudicio di petrolio, è stata un viaggio nel nulla. Le acque sono state chiuse, i collegamenti sospesi, ottantanove pescherecci costretti a rientrare. (segue dalla copertina) Qualche cargo è alla deriva, in attesa di indicazioni. Il villaggio b o m b a r d a t o d a l Nord è un cumulo di calcinacci affumicati, avvolto in un silenzio assoluto e puzzolente. Ciò che non è esploso, i banchi del mercato, tre osterie, gli uffici e le botteghe dei meccanici, è abbandonato come se la vita normale dovesse riprendere tra un istante. Il resto è ormai un fronte di guerra e le crepe che tagliano i muri, che all’ improvviso collassano con fragore sottoi tetti di lamiera, ricordano le ferite di un terremoto. I militari di Seul vagano davanti a settanta case crollate, per le strade sconvolte dalle granate, nella base militare pericolante. I vetri delle finestre sono scoppiati e appare un divano verde che brucia lentamente davanti ad un tavolo ben apparecchiato in un salottino. La popolazione è rinchiusa da ieri nei diciannove rifugi sotterranei. Oltre mille persone, tra cui 120 studenti, ammassate fra trapuntee cappotti che trasmettono il caldo irrespirabile della tragedia. Nei bunker ci sono la candele accese e quando la gente capisce che i soccorritori sono arrivati, molti si mettonoa piangere, gli altria gridare. La maggioranza vuole fuggire sulle navi per raggiungere la costa. Altri pretendono di restare per recuperare qualcosa, o per chiudere la porta di una casa che non c’ è più. Una ventina di feriti vengono riportati alla luce sulle lettighe, tra vecchi e bambini che si abbracciano. A mezzogiorno un gruppo di pompieri trova due cadaveri semicarbonizzati nel cantiere della scuola in ristrutturazione, accanto al Motel Haeseong. Sono i resti di due manovali sulla sessantina che si credeva salpati nella notte su una barca da pesca. Sono i primi civili uccisi dalla guerra sulla penisola coreana dal 1953 e il bombardamento di martedì compie uno spaventoso salto di qualità. Il bilancio dell’ attacco di Pyongyang ora è di quattro morti e ventidue feriti. Le due vittime falciate al lavoro, mentre riparavano una classe solo casualmente chiusa, per la popolazione delle isole contese tra le due Coree sono però la prova di un attacco premeditato per colpire gli innocenti. I riemersi dai bunker di Yeonpyeong colgono il valore politico dei due lenzuoli bianchi, ammutoliscono e sentono all’ improvviso la stanchezza di una vita senza pace. Lo choc li risveglia dal torpore ed esplode la rabbia. Chiedono al sindaco Song Young-gil di costringere il governo di Seul a reagire, di indurre il presidente Lee Myung-Bak ad attaccare per vendicare morti e distruzioni. Pretendono di «annientare gli ingrati del Nord», scacciando il terrore di una risposta nucleare. Per la prima volta ricordano l’ attacco. «Due ondate di bombe - dice Kim Seong-tae - tra le 14.34 e le 14.55, e tra le 15.11 e le 15.42. Un inferno senza uscite». Sono istanti cronometrati che cambiano la storia dell’ Estremo Oriente. Oltre quattrocento sopravvissuti abbandonano infine l’ isola, salendo sulla motovedetta senza una borsa in mano. Altrettanti li seguiranno tra due ore. Il villaggio a sud di Yeonpyeong si trasforma in una trincea. La radio annuncia che il ministro degli esteri del Sud, Kim Tae-young, porterà sull’ isola altri cannoni calibro 105 a propulsione e a lunga gittata. Si aggiungono a sei missili «K9» ed è chiaro che questa spiaggia dove sarebbe bello restare è ormai una prima linea del pianeta. La nave degli evacuati non gira la prua verso il molo di Incheon, dove una folla aspetta dalla notte. Si spinge nel cuore dell’ arcipelago, lungo il 38º parallelo c h e i n m a r e d i c h i a m a «Northern Limit Line». Nelle isole che galleggiano da sessant’ anni tra gli opportunismi di Seul e di Pyonyang, le immagini del bombardamento hanno scatenato il panico. Anche le popolazioni di Baengnyeong, Daecheong e Socheong sono in fuga, spesso sui gusci leggeri per la pesca dei granchi. Una cinquantina di vecchi, salpati all’ alba dal villaggio più occidentale, vengono issati a bordo. Sul lato della nave, a meno di tre chilometri, scorre la costa del Nord. Un raggio di sole ingiallisce una scogliera verticale. È la base di Gaemeori, da cui l’ artiglieria di Kim Jong-il ha fatto fuoco poche ore fa. Sette fessure scavate nella roccia, larghe due metri e alte uno, stanno sospese appena sopra le onde. Sono visibili anche le bocche dei cannoni e i sopravvissuti del Sud le indicano spaventati, mormorando «traditori bastardi». Dietro gli avamposti del regime si cela uno squilibrio di forze impressionante. Il Nord, ormai potenza atomica, dispone di 1,2 milioni di soldatie di 7,7 milioni di riservisti. Il Sud, oltrea 29 mila marines americani, conta 655 mila militari e 3 milioni di uomini richiamabili. È la chiave dello stallo e i sudcoreani che scappano dalle isole ormai conquistate dalle armi guardano con tristezza passare le postazioni di Ongjine Sagot, dove si ammassano i loro fratelli del Nord. Solo navigando verso Sud, protetti dalla notte, si diffondono a bordo le nuove, cattive notizie. Chiusi a tempo indeterminato uffici, negozi e scuole dell’ arcipelago. Sospesi i ricongiungimenti delle famiglie coreane divise da oltre mezzo secolo. Chiuse le vie di comunicazione tra i due Paesi, compreso l’ accesso del distretto industriale di Kaesong, appena a Nord della zona demilitarizzata di Pan Mun Jom, dove duemila operai del Sud rischiavano di trasformarsi in ostaggi di guerra. Interrotti gli aiuti alimentari di Seul, per 6,5 miliardi di euro, alla popolazione affamata del Nord. Paga la povera gente, che non capisce perché tutto questo dovrebbe portare a una miracolistica «ripresa dei colloqui a Sei». A Seul ci si consola pensando che se il «caro leader» avesse voluto scatenare il conflitto finale, avrebbe mirato sulla capitale, o su Tokyo. E per le strade si esulta quando i maxischermi annunciano che la portaerei americana «George Washington», a propulsione nucleare, ha lasciato il Giappone per il Mar Giallo. Da domenica a mercoledì appoggerà le «esercitazioni militari difensivie» UsaCorea del Sud, aggiungendo 6 mila marines e 75 caccia agli 86 mila soldati impegnati. L’ arrivo del gigante mondiale dei conflitti in mare è l’ icona mediatica della pressione che sta travolgendo la fragile pace dell’ Asia. Nel Sud della penisola coreana è come una scossa e ci si prepara ad accoglierla con la felicità riservata ad un liberatore. Pochi ieri hann o a s c o l t a t o i m o n i t i d i Pyongyang a Seul: «Provocazioni militari e ritardo negli aiuti umanitari stanno spingendo la regione sull’ orlo della guerra». Sul molo di Incheon, dopo il tramonto, si ironizzava sull’ obbligo di appendere un ritratto del giovane Kim Jong-un, prossimo dittatore nelle mani dei generali paterni, in tutte le case del Nord. «Dimenticando che dopo oltre mezzo secolo di scontri - dice Yeong Yanghwan, 82 anni, reduce dell’ invasione del 1950 - in un conflitto si cade anche accidentalmente, per sfinimento, o infine convinti che possa esistere una vittoria».