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 2010  novembre 06 Sabato calendario

PISANU, IL SARDO TESSITORE

Sabato scorso sul palco del Teatro lirico di Cagliari, Giuseppe Pisanu, detto Beppe anche nelle biografie ufficiali del Senato, ha rivelato una certa cura del dettaglio autorappresentativo nell’illustrare, a Rosanna Cancellieri, l’attuale composizione del suo comodino: oltre a un paio di inevitabili pubblicazioni sulla criminalità organizzata, il saggio “Per l’alto mare aperto” di Eugenio Scalfari e “Accabadora” di Michela Murgia, scrittrice sarda vincitrice del Campiello nonché editorialista glam per il programma televisivo “Le invasioni barbariche”, con un passato di salda militanza nell’Azione cattolica. Nello stesso luogo e nella stessa occasione, ovvero il premio letterario Francesco Alziator, appuntamento di un certo prestigio per la scena culturale cagliaritana, Pisanu è stato l’ospite d’onore insieme a Lidia Ravera e alla senatrice di origine marocchina Souad Sbai, finiana poi pentita o redenta a seconda dei punti di vista. Il catalogo delle pubblicazioni registra, nel maggio scorso, la postfazione al libro sull’immigrazione del futurista Fabio Granata essendo la prefazione opera di Gianfranco Fini. L’agenda personale segnala un incontro pubblico con Pier Ferdinando Casini a Trento, ieri, e un dibattito, a Roma, chez Enzo Carra con Marco Follini e il medesimo Casini il 9 novembre. Due indizi non fanno una prova, ma cinque possono indicare una tessitura, per i nemici perfino una trama. Di sicuro offrono la chance della verosimiglianza a quella letteratura retroscenistica che, sui giornali di destra e di sinistra, evoca lo spettro o il sogno di un governo Pisanu fin dall’estate scorsa, quando il senatore del Pdl e presidente dell’Antimafia apparve alla festa nazionale del Pd insieme a Fioroni e poi a quella dell’Api di Rutelli nel reatino. Da allora l’evocazione viene testata su gradi di plausibilità ed eventuali adesioni.
Che i tanti impegnati a trasformare Pisanu in risorsa, in caso di una crisi formale dell’esecutivo senza l’approdo elettorale minacciato da Berlusconi, credano realmente nell’operazione è tutto da verificare. Ma il semplice nominare è parte della strategia del logoramento di chi a Palazzo Chigi ha intenzione di restarci e Pisanu è un richiamo più che presentabile per i delusi del Pdl in Senato, dove la caccia alla maggioranza “altra” continua sotto traccia. Se invece sia l’interessato a crederci è cosa ancora diversa, ma certo in nome di uno scaramantico “hai visto mai” o di un più cristiano “aiutati che Dio ti aiuta”, la possibilità della premiership il presidente dell’Antimafia la sta esplorando, con la misura e il puntiglio che un fedelissimo conterraneo, l’ex forzista Pasqualino Federici, già assessore nella giunta di Mauro Pili, altro grande amico di Pisanu, ritiene tratti fondamentali del suo carattere. Fino a una ammirevole pedanteria. La capacità di mediazione che gli ex dc di destra e di sinistra gli riconoscono insieme a un’idea quasi ecumenica del ruolo istituzionale, dovrebbero fare il resto.
La lunga storia politica del resto lo incoraggia: in una carriera iniziata nella Dc isolana a diciotto anni, in un ciclo parlamentare ininterrotto dal 1972, con l’eccezione del biennio 1992-94, le occasioni, gli spazi improvvisamente e a volte traumaticamente creati per le uscite di scena di qualcun altro meno misurato di lui, hanno contato eccome. Nel 1996, Pisanu passò dal ruolo di vice a quello di capogruppo alla Camera di Forza Italia in sostituzione di Vittorio Dotti, dimissionario sotto i colpi del caso Ariosto. Nel 2002, da ministro dell’Attuazione del programma – “ogni quindici giorni ci dirà se il governo ha fatto quello che doveva fare” era il mansionario previsto da Berlusconi – fu promosso ministro dell’Interno al posto di Claudio Scajola che conversando con due giornalisti aveva dato del “rompicoglioni” al giuslavorista Marco Biagi assassinato dalle nuove Br. In entrambi i casi erano stati premianti l’affidabilità, la pacatezza, il professionismo politico di Pisanu e, ça va sans dire, l’antropologia democristiana. La capacità di essere cerniera in luoghi, Parlamento e Viminale, in cui esserlo paga.
“Si è collocato sul confine, sfrutta la parresia per prendere le distanze da Berlusconi qua e là, ma con misura e si costruisce il profilo da réserve de la République” dice Francesco Sanna, senatore del Pd di area lettiana ex popolare e, come attestato dal cognome, sardo: “Di Iglesias, non sassarese, Pisanu è sassarese di Ittiri”. Le sardità in effetti sono diverse, mai confondere Cagliari con Sassari, l’unica vera città di mare aperta al mondo con la terragna e colta, ma chiusa, Sassari. Pisanu viene dalla terra, da una famiglia di agricoltori lontana dalle dinastie intellettuali della città come i Segni, i Berlinguer, i Siglienti, i Cossiga, più o meno peraltro imparentati. Non ha mai avuto il complesso delle origini, anzi le ha rivendicate, si è laureato in Agraria, del resto, e dalla sardità come isolanità ricava aneddotica: “Mio padre ci ha messo vent’anni ad ammettere che il parmigiano è buono quanto il formaggio sardo”, diceva ancora pochi giorni fa. Alla Sardegna peraltro è attento anche in termini di rapporto con il terroir. “Ha sempre teorizzato che il collegio va curato”, dicono i politici locali, nella tradizione culturale delle preferenze. Negli anni al Viminale ha voluto a tutti i costi la costruzione della nuova questura di Sassari: dalla prima pietra all’inaugurazione ha partecipato a tutti i tagli di nastro. Certo il governatore attuale Cappellacci non è un amico, lo era il predecessore Mauro Pili e anche questo spinge a coltivare interlocutori altri. Insieme a una visione millenarista ed emergenziale della situazione che incoraggia la suddetta parresia. “Siamo ridotti come Ninive ai tempi del profeta Giona, una città così malmessa e disorientata che i suoi abitanti, dice la Bibbia, non riuscivano più a distinguere la mano destra dalla mano sinistra”, sosteneva Pisanu a ottobre in un’intervista al Corriere della Sera firmata da Aldo Cazzullo, dove di conseguenza spiegava: “Se per ripristinare una corretta competizione democratica fosse necessario andare oltre i partiti attuali, non me ne farei un cruccio”. Fino a invitare i moderati a una ricomposizione e a invocare “il senso della responsabilità nazionale come Gramsci e Berlinguer negli anni Settanta”.
Sottotesti inclusivi captati da gente che conosce Pisanu da anni e anni come Bruno Tabacci, ex Udc ora Api, che lo ha candidato esplicitamente a guidare un esecutivo di transizione ove mai se ne determinasse l’occasione; o come Luigi Zanda, senatore del Pd. “Se glielo dicono in dodici alla fine magari se ne convince pure – osserva con ironia un ex dc romano che lo conosce molto bene – ma il problema è che ha una singolare cautela nei confronti di Berlusconi: dice cose agli antipodi, ma poi esita a bruciare l’ultimo vascello”. Per Pisanu, teorizza lo stesso politico, “la leadership deve essere inscritta in quella degli altri, prima Cossiga, poi Zaccagnini, poi Berlusconi e oggi Fini e Casini”.
E’ un’idea attendista, nel codice democristiano della dissimulazione che non prevede mai l’ammissione di essere in corsa, ma solo la chiamata a giochi fatti, nella convinzione sedimentata che chi entra in Conclave Papa esce cardinale: “Lui c’è se il percorso lo costruiscono gli altri”, ribadisce il politico di cui sopra. La costruzione del percorso per il momento prevede per lo più contatti e colloqui. Pisanu parla con Massimo D’Alema che alla ricerca degli interlocutori in campo avverso si è sempre dedicato con la pazienza del ragno e che oggi lavora all’ipotesi di un governo altro. Parla con Walter Veltroni membro della commissione Antimafia che una decina di giorni fa ha fatto proprio con veemenza l’allarme infiltrazioni criminali nelle liste delle scorse regionali (e la critica alle prefetture) che Pisanu ha lanciato seminando polemiche. Gli interlocutori privilegiati tuttavia sono i terzopolisti, Fini e Casini. Casini e Fini. Anzi, spiega un centrista di peso, “Pisanu si intesta il merito di aver fatto da mediatore fra i due divisi dal predellino”. Un pranzo a tre a Montecitorio ospite con Casini del presidente della Camera prima della clamorosa rottura tra i cofondatori in aprile attirò i primi pezzi sospettosi di tentazioni frondiste. In realtà quello era il quarto appuntamento a tre, dopo alcuni incontri riservati che rivelavano un “comune sentire in economia, politica estera e anti Lega” come dicono nell’Udc. Pisanu ne tenne conto: alla direzione nazionale dello strappo si astenne sul documento finale contro Fini, “perché non si può escludere il dissenso e bisogna dominare i fatti come diceva Moro con l’intelligenza”.
Eppure, a dispetto di tutte queste evidenze, chi conosce bene Pisanu o anche solo chi lo ha frequentato al tempo della Prima Repubblica assicura che c’è un dato caratteriale fondamentale di cui tener conto: “Non è uno che fa strappi”, raffigurazione più frequente prima di una sfilza di metafore tessili: è uno che cuce, che rammenda, troppo austero forse per un ricamo ma che insomma sa usare il telaio.
Non fu uno strappo, dice Guido Bodrato, democristiano della sinistra che a 77 anni segue la politica da Torino e non crede troppo nel Pd, neppure quello del 1994 quando Pisanu lasciò i Popolari per il Polo della libertà e del buongoverno, lui uomo della sinistra Dc, moroteo, segretario politico di Benigno Zaccagnini. Pisanu era il più giovane della cosiddetta “banda dei quattro” (gli altri erano, oltre a Bodrato, Franco Selvi e Corrado Belci) secondo la definizione polemica di Flaminio Piccoli, quattro come i reggitori delle statue dei santi in processione, quattro come i mandarini di Mao. Non fu tradimento, “non ricordo una decisione politica”, racconta Bodrato, la verità è che i suoi l’avevano abbandonato e lui voleva “rimanere in politica”. “Ha pesato l’opinione di Cossiga suo mentore al tempo dei giovani turchi, che lo ha incoraggiato e lo ha aiutato a non cadere nel vuoto”. Pisanu rappresenta il ceto politico professionale, vita e politica hanno coinciso e coincidono, questo lo ricorda un altro sardo del centrosinistra. “I dc dovevano scegliere o supporto al polo di sinistra o lievito del polo liberaldemocratico – si giustificò allora Pisanu – Fini? E’ un’alleanza puramente tecnica e apprezzo l’evoluzione del Msi con la sua segreteria”.
E’ Casini a consigliare a Berlusconi la candidatura di Pisanu, ma in realtà i rapporti diventeranno stretti anche con l’uomo forte del Cavaliere in Sardegna, Romano Comincioli, che sardo per la verità non è. “Forza Italia delle origini reclutava avvocati, medici, commercialisti, ma servivano anche i professionisti della politica gente che sapesse stare in Parlamento”, ricordano i centristi di allora. Il curriculum di Pisanu è perfettamente adeguato allo scopo. Si candida nelle liste del Ccd, ma una volta eletto sceglie Forza Italia.
Prima, durante il quinquennio di governo del centrosinistra, da capogruppo, poi da ministro dell’Interno del secondo governo Berlusconi accentua ecumenismo e attitudini cernieristiche, si sposta verso il confine. La chiave è nel profilo istituzionale, nelle iniziative lodate trasversalmente – con l’eccezione politicamente redditizia della Lega – come la Consulta islamica durante la guerra in Iraq, organismo comprensivo anche di figure eccentriche e per certi versi pop, come Afef Jnifen. Nell’insieme poi lo spirito di iniziativa del ministro rinsalda i rapporti con gli Stati Uniti e con il Vaticano, entrambi in realtà di vecchia data.
“Pisanu è curiale non solo nella gestualità e nell’approccio alle cose”, osserva un altro dirigente centrista di origine democristiana. Quanto all’America, il presidente dell’Antimafia l’ha frequentata fin dalla giovinezza, come da tradizione cossighiana: organizzò peraltro il viaggio di Zaccagnini nel 1977 insieme a Vittorio Follini, padre di Marco. Tornarono colpiti da eventi di natura extrapolitica, John Travolta e “La febbre del sabato sera”. Perché Pisanu, racconta l’amico Pasqualino Federici, quando non parla di politica è un conversatore brillante, dai molti interessi. Sembra oltretutto che ami l’idea del viaggio: ha raccontato che il suo libro preferito è l’“Ulisse” di Joyce visto che l’eroe è un viaggiatore sia pure dentro Dublino.
Lo spostamento definitivo sul confine risale alla notte del 10 aprile 2006, la notte elettorale oggetto di denunce di brogli mai provati e di una documentaristica di sinistra che dapprima colpisce Pisanu (“lasciò due volte il Viminale per andare a Palazzo Grazioli”) estendendo la diffidenza anche al mattino dopo quando fu arrestato Bernardo Provenzano, ma che poi, alla luce del peggioramento dei rapporti tra il ministro e Berlusconi, lo rivaluta. Osserva con una dose di malizia un esponente del centrosinistra che quella notte l’ha vissuta a distanza ravvicinata da Prodi che Pisanu sia “il primo interessato ad alimentare la tesi di un Berlusconi arrabbiato non perché abbia sbagliato a creare l’illusione di una vittoria del centrodestra, ma perché non è stato fedele”. Quella notte segna un passaggio fondamentale nella considerazione del centrosinistra, nella costruzione della spendibilità istituzionale. Un passo che ha una specie di compimento con la relazione dell’Antimafia nel giugno scorso in cui Pisanu certifica la tesi dell’intreccio fra politica e apparati (naturalmente deviati) dietro le stragi di mafia del 1992-93 e quella della “democrazia in pericolo”. Ci sono “tre verità che si giustappongono senza mai fondersi: quella giudiziaria, quella politica, quella storica”, disse. Il concetto piacque, la relazione fu apprezzata.
“Da un punto di vista etico sarebbe grave se Pisanu si prestasse a giochi di palazzo – osserva Osvaldo Napoli, Pdl – ma da un punto di vista umano, per carità, lo capisco: è anziano e sarebbe un finale di carriera appetibile la presidenza del Consiglio, dopo il Viminale”. Colpisce l’indulgenza preventiva dell’approccio e la sincerità rivelatrice dell’instabilità complessiva del quadro. “Pisanu sarebbe seguito dai sardi, come Massidda, Sanciu e altri quattro o cinque, ma certo in caso di crisi non sarebbe nemmeno questione di sardità, tutti quelli che non vogliono le elezioni potrebbero seguirlo”.
Con minore indulgenza e una buona dose di veleno, nel Pdl c’è chi osserva che Libero e il Fatto hanno lanciato i loro messaggi ricordando la vecchia storia dei rapporti con Flavio Carboni negli anni Ottanta e, attraverso Carboni, con Roberto Calvi ai tempi della P2 e del Banco Ambrosiano. “E’ vero che ho conosciuto Carboni, ma ho anche chiarito tutto, non sono mai stato iscritto alla P2 né mai indagato e per quelle vicende mi dimisi immediatamente da sottosegretario al Tesoro – ha scritto Pisanu al Fatto – Posso rimproverarmi solo qualche ingenuità”. In effetti né Bodrato né altri testimoni di allora ritengono che siano quelle vicende a poter impedire un approdo a capo del governo. “Ci sono personaggi che hanno assunto una fisionomia più precisa in seguito. Credo che pochi politici sardi non abbiano avuto rapporti con Carboni o con Armando Corona – osserva Bodrato – La sua è stata ingenuità accompagnata da ambizione di entrare nelle cose importanti. Senza rendersi conto dei rischi. Ma penso in generale che tutte le cose ritirate fuori dai cassetti dopo tanti anni perdono valore”.
Ma cassetti aperti o chiusi, o ininfluenti, una cosa è certa a molti dirigenti del Pdl: che mai Pisanu farebbe, nell’ipotesi improbabilissima di una crisi, un’operazione alla Dini. Il caso Pisanu semmai parla d’altro. Della possibilità – questa sì molto fondata – che il campo di gioco avvantaggi i possessori di know-how democristiano d’antan e che il filo da tessere ce l’abbiano gli esperti di scomposizioni e ricomposizioni. In una sorta, se così fosse, di nemesi per Forza Italia: che nata sul naufragio della Balena bianca, correrebbe il rischio di spiaggiarsi democristiana.