Maria Carla De Cesari, Il Sole 24 Ore 25/11/2010, 25 novembre 2010
IPOTECA DELLA UE SULLE PENSIONI
La Corte di giustizia Ue ha obbligato l’Italia ad aumentare l’età della pensione di vecchiaia nel pubblico impiego, per parificarla, dal 2012, a quella degli uomini. Dalla stessa Corte arriva ora la leva per omologare, per uomini e donne che lavorano nel privato, i requisiti per il trattamento di vecchiaia (si veda «Il Sole 24 Ore» di ieri).
Per la Corte, infatti, non è ammessa la discriminazione in base al sesso per quanto riguarda i requisiti anagrafici della pensione di vecchiaia. La prospettiva dei giudici europei (causa C-356/09, relativa all’Austria) è quella di escludere differenti trattamenti nell’ambito della procedura di licenziamento. Non si può consentire, per ridurre il personale, di chiudere il rapporto di lavoro con quanti compiono l’età della vecchiaia a 60 anni: in questo caso le donne hanno un anticipo di cinque anni rispetto agli uomini. Contro questa penalizzazione, la signora Kleist, un medico austriaco, ha avuto ragione alla Corte di giustizia.
La sentenza, a differenza di quella del 2008 – proprio ieri Bruxelles ha chiuso ufficialmente la procedura di infrazione, dopo la legge 122/2010 (si veda anche il grafico) – non produrrà effetti automatici nel nostro Paese. Tuttavia, si tratta di un’opzione offerta al legislatore per intervenire, di nuovo, nel cantiere delle pensioni. Oppure, potrebbe essere uno strumento legale offerto a chi si sentisse discriminato della differenza di età per la pensione di vecchiaia. Va detto che, nel nostro paese, in situazioni di normalità economica le donne, raggiunti i 60 anni, possono continuare a lavorare fino a 65, ma nelle ristrutturazioni aziendali è naturale che si selezionino i dipendenti più vicini al pensionamento.
Nessun commento sulla sentenza è arrivato ieri dal ministero del Lavoro e anche l’Inps non ha ritenuto di intervenire. «La previdenza – spiega Alberto Brambilla, presidente del Nucleo di valutazione della spesa previdenziale del ministero del Lavoro – non è tra le materia di competenza di Bruxelles. Eppure, le pronunce della Corte di giustizia danno, all’Europa, un potere, vincolante o di indirizzo. Dopo la sentenza del 2008 abbiamo dovuto accelerare l’allineamento dell’età della pensione tra uomini e donne dipendenti del pubblico impiego, perché in quel caso c’era una procedura di infrazione. Per il privato la questione si porrà nel prossimo futuro».
Riprendere in mano la situazione risponde, per Brambilla, all’esigenza di mettere ordine in un sistema che produce effetti paradossali: per esempio, le lavoratrici autonome che hanno 35 anni di contributi possono andare in pensione di anzianità solo con 61 anni di età. L’anno prossimo, il requisito anagrafico di 61, sempre per la pensione che dovrebbe essere anticipata rispetto alla vecchiaia, diventa vincolante, con 36 anni di contributi. Questa condizione varrà dal 2013 anche per le lavoratrici dipendenti.
C’è poi, secondo Brambilla, un motivo di tenuta complessiva del sistema. «Occorre – afferma – rivedere la spesa sociale: quest’anno le pensioni rappresenteranno il 15-15,2% del Pil, contro una previsione del 14,9. A questo va aggiunto l’1,5% sul Pil per la spesa assistenziale – dai trattamenti sociali all’accompagnamento – e uno 0,5 relativo agli ammortizzatori sociali. Nonostante le riforme di questi anni – dalla legge Amato del 1992 alla Dini del 1995, dalla Maroni del 2004 alla Damiano del 2007, fino all’ultima manovra – il rapporto tra la spesa e il Pil è rimasto elevato soprattutto per il limitato tasso di crescita, che da dieci anni caratterizza il nostro paese, e per la bassa produttività. I nostri competitori sono cresciuti di circa il 10% nel decennio, tra il 2007 e il 2009 la nostra produttività è calata del 2,7 per cento. Aumenta invece il deficit e il debito pubblico ha raggiunto 1.850 miliardi. Se va avanti così, la preoccupazione non è il futuro pensionistico ma il futuro dei giovani e del paese».