Morya Longo, Il Sole 24 Ore 25/11/2010, 25 novembre 2010
IL DEBITO DI MR. O’SULLIVAN IN POCHE MANI STRANIERE
Se fossero stati Mr Smith, Mr O’Sullivan o Mr Murphy a comprare i titoli di stato del loro paese, cioè l’Irlanda, oggi Dublino avrebbe un problema in meno: la crisi ci sarebbe ugualmente, ovvio, ma forse sarebbe meno in balia dei capricci dei mercati. Purtroppo per loro, però, non è stato così: oggi il 75% del debito pubblico e il 50% del debito bancario irlandese è infatti in mani estere. Una montagna di 113 miliardi di euro, che in Irlanda equivale a circa il 66% del Pil, è ostaggio dell’umore degli investitori non irlandesi. Se si considera che una buona fetta di questo debito (pari a 44 miliardi di dollari) è assicurata attraverso credit default swap e se si pensa che il 72% del mercato di queste polizze passa attraverso le cinque maggiori banche Usa, il problema diventa ancora più serio: il debito irlandese, in fin dei conti, parrebbe influenzato dalle decisioni di pochi grandi gruppi bancari. Questo è un problema per Dublino. Per Mr Smith, Mr O’Sullivan, Mr Murphy. E, in fondo, per l’Europa: discorsi analoghi si possono infatti estendere a Grecia e Portogallo.
Incrociando alcuni dati (quelli di Banca centrale, Bri, Dtcc e le stime di Rbs) si riesce a delineare un quadro abbastanza dettagliato del problema. Prendiamo ad esempio il debito delle banche irlandesi. A inizio 2010 gli investitori locali detenevano 38 miliardi di euro di bond bancari, mentre 14 miliardi erano in mano a investitori europei e 47 a soggetti extraeuropei. Insomma: a gennaio il 62% del debito bancario irlandese era in mani estere. Oggi gli investitori locali hanno mantenuto quasi invariata l’esposizione, mentre quelli internazionali l’hanno ridotta a un totale di 35 miliardi. Morale: con lo scoppio della crisi, i non-irlandesi hanno quasi dimezzato i crediti alle banche. E con i titoli di stato di Dublino hanno fatto lo stesso, vendendo a piene mani.
Direbbe Mark Twain: l’investitore estero è colui che ti presta l’ombrello quando c’è il sole e te lo chiede indietro quando inizia a piovere. Proprio questo è il nodo: non appena in Irlanda è iniziata la "pioggia", banche e fondi internazionali hanno ritirato i finanziamenti. «Gli investitori locali conoscono meglio il proprio paese, per cui sono in grado di comprendere l’evolversi di una crisi e di non farsi prendere dal panico – osserva Marco Annunziata, capo economista di UniCredit –. Quelli esteri, invece, sono più portati a vendere appena le cose non vanno bene». Ecco perché avere il 75% del debito pubblico fuori dai confini nazionali è un’aggravante per l’Irlanda. Come lo è per il Portogallo e per la Grecia. E infatti il governo di Dublino sta cercando di correre ai ripari: modificando una legge, intende consentire al fondo di social security di investire maggiormente sui titoli di stato locali.
Ma per ora il problema resta. I dati ufficiali (della Bri) indicano che a giugno le banche più esposte erano quelle tedesche (138 miliardi di dollari) e quelle inglesi (131 miliardi). Un recente articolo del «Wall Street Journal» rivela che la più esposta in Gran Bretagna è Royal Bank of Scotland (64 miliardi di euro), seguita da Lloyds (32 miliardi). Ma questi dati dicono poco: utilizzando i credit default swap (delle vere e proprie polizze assicurative) qualunque banca può infatti "coprire" la sua esposizione. La Depositary Trust & Clearing Corp calcola che oggi le polizze contro rischio-Irlanda ammontano a 44 miliardi di dollari lordi (da 29 miliardi di un anno fa): dunque esistono "coperture assicurative" per questa cifra. Per cui il rischio Irlanda può essere altrove. Dove? Impossibile saperlo. Si sa solo che il 72% del mercato dei credit default swap passa da JP Morgan, Bank of America, Goldman, Morgan Stanley e Citigroup. E che sono sempre loro, insieme a pochi altri big europei, a dominare il mercato dei titoli di stato. La verità è che il mondo del debito è concentrato in poche mani. Purtroppo per Mr Smith, non sono irlandesi.