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 2010  novembre 25 Giovedì calendario

PERCHÉ È DIFFICILE IN ITALIA AMMINISTRARE LA CULTURA

Come mai l’Italia, che possiede il 75% del patrimonio artistico mondiale non ha un ministro per la cultura? Bondi non ha mai parlato di cultura e di quello che si può fare per incentivare il turismo culturale, ma parla sempre dei problemi legali di Berlusconi. Pompei cade a pezzi, alcuni siti, in Calabria, dove io abito sono ormai irrecuperabili, o li stiamo perdendo per sempre; invece Parigi, rispetto a Roma, riceve ogni anno milioni di turisti della cultura. Ci dicono che mancano i fondi; ma essi mancano per la cultura e per la ricerca, mentre proliferano le auto blu, le Province e le Comunità montane. Come rimpiango la 1°Repubblica: almeno ricordo dei signori come Spadolini e Malagodi.
Saverio Guzzo
saverio.guzzo@alice.it
Caro Guzzo, non posso raccontarle la storia dell’amministrazione del patrimonio culturale italiano, materia di una sterminata letteratura fra cui un libro di Vittorio Emiliani, apparso presso Rizzoli nel 1990 con un titolo che suona oggi profetico: «Se crollano le torri. Beni e mali culturali». Mi limiterò a dirle che la responsabilità fu esercitata per molti anni, anche in epoca fascista, da un alto funzionario del ministero della Pubblica istruzione (divenuto nel 1929 ministero dell’Educazione nazionale) che portava il titolo elegante e un po’ antiquato di «direttore generale delle Belle Arti». Abbiamo avuto direttori generali di grande cultura e, grazie a Bruno Bottai, ministro dal 1936 al 1939, una legge per la protezione del patrimonio culturale italiano che fu scritta con la collaborazione di alcuni fra i maggiori esperti dell’epoca e rimase in vigore fino al 1999.
L’idea di separare la cultura dall’istruzione per affidare la prima un ministero separato, fu di Giovanni Spadolini, professore universitario, giornalista, segretario del partito repubblicano, membro di parecchi governi e per un anno e mezzo, dal giugno 1981 al dicembre 1982, presidente del Consiglio dei ministri. Il modello di Spadolini, probabilmente, fu quello della Francia, dove il generale De Gaulle, dopo il suo ritorno al potere, aveva creato un ministero della Cultura e lo aveva affidato ad André Malraux, uno dei più prestigiosi e controversi intellettuali francesi di quegli anni.
Malraux aveva preso iniziative spettacolari e importanti come la pulizia delle facciate di Parigi, imbruttite da una spessa patina di fuliggine, e la creazione di una grande rete di teatri popolari che coprì l’intero territorio francese. Ma il ministero italiano, creato nel 1974 e affidato a Spadolini, non poté chiamarsi «della Cultura», un nome già utilizzato per un ministero che Mussolini aveva creato nel 1937 sulle ceneri di un sottosegretariato alla stampa che era in realtà il portavoce del regime e il cane da guardia della stampa nazionale. Il ministero della Cultura popolare (meglio noto, con un acronimo di stile sovietico, come Min. Cul. Pop) continuò a dirigere la stampa e fece «cultura fascista» con una serie di iniziative che avrebbero dovuto dimostrare la sensibilità artistica del regime e l’esistenza di una ideologia fascista. Per il ministero di Spadolini fu scelto quindi il nome meno impegnativo di «ministero dei Beni culturali», nell’intesa che i suoi uffici avrebbero amministrato e valorizzato il patrimonio senza piegarlo a finalità più ambiziose. La possibilità di una politica ambiziosa fu esclusa, comunque, non tanto dal suo nome quanto dalla modestia del suo bilancio e dai conflitti di competenza con le regioni e i comuni.
Mi accorgo, caro Guzzo, di avere risposto soltanto in parte alle sue domande. Ma spero che queste informazioni servano a comprendere perché la gestione del patrimonio culturale resti nella storia dell’Italia unita un problema insoluto.
Sergio Romano