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 2010  novembre 25 Giovedì calendario

BERTELLI: LIBERIAMOCI DAL SENSO DI IMPOTENZA —

Patrizio Bertelli potrebbe festeggiare i dati dei primi nove mesi del 2010 — +31% nei ricavi, 156 milioni di utili, il triplo dello stesso periodo del 2009 —, ma appare prudente. «Lo sarei, se fossi egoista. Invece preferisco andare bene mentre tutte le aziende vanno bene, che andare bene mentre altre vanno male». A che punto è la crisi? «Si torna indietro. Alcuni Paesi, alcune aree sono ripartite. Altre fanno fatica. L’Italia ha un problema strutturale, che non è stato risolto neanche con la seconda Repubblica. Pensiamo ancora che ci possano essere frontiere. Ricorriamo mentalmente a criteri vecchi, mentre nella pratica vigono criteri diversi. Visto che le imprese sono fatte da esseri umani, bisogna chiedersi se le persone sono disponibili ad accettare cambiamenti a livello mondiale, a cominciare dalle regole sul lavoro, o se aspettano che il mercato riprenda. Ma l’attendismo non paga. Escono dalla crisi le imprese che hanno affrontato il problema in modo preciso e forte, che si sono confrontate con il mondo internazionale. Non occorre andare molto lontano: il sistema europeo tiene. Il bacino del Mediterraneo è pieno di occasioni: il Marocco, la Tunisia, la Turchia. Certo, non basta andare all’estero: per consolidarsi occorrono anni, non mesi. Noi ci siamo andati vent’anni fa, e ora l’80% dei nostri prodotti viene esportato».
È vero che metterete sull’etichetta il Paese di produzione, tipo made in India o in Perù?
«Lo stiamo già facendo. Fa parte della chiarezza nei confronti del consumatore. Se poi tra vent’anni i lavoratori nelle fabbriche italiane saranno tutti extracomunitari, metteremo il marchio made in Prada…». Come stanno le piccole aziende? «Sono quelle che soffrono di più. In tanti mi chiedono: “Patrizio, prendimi un po’ di stoffe, un po’ di pelli…”. Io sono ammirato dalla tenacia di questi artigiani, di questi piccoli e medi imprenditori. C’è gente che si ammazza di fatica per non lasciare a casa i dipendenti, che non punta neppure più agli utili ma al pareggio, pur di non chiudere. Purtroppo il sistema fiscale le strangola. Un’azienda che non ha dimensioni sufficienti per andare all’estero dovrebbe essere aiutata, dovrebbe pagare meno tasse per reggere il peso della concorrenza».
Lei in passato è stato critico con Berlusconi. E ora?
«Il problema non è Berlusconi. A parte le vicende personali, di cui non mi importa nulla, Berlusconi rappresenta l’incapacità del nostro Paese a imboccare la strada della modernizzazione, a confrontarsi con armi un po’ più competitive con il resto del mondo. Il modo di approcciare i problemi è lo stesso di sempre, è mancato un cambiamento di sostanza. Berlusconi ha tantissime colpe, però il problema è un altro: cosa viene dopo di lui? Non parlo di persone, ma di prospettive».
Crede nel terzo polo?
«Mi pare abbia un problema di leadership. Alla politica guardo da lontano. La considero un mestiere, non un’arte. Come fare l’imprenditore. Alla politica chiedo nuove regole sul lavoro e per lo sviluppo. E mi domando com’è possibile che un ministero della Cultura sia senza portafoglio, oltretutto in un Paese come l’Italia».
Voterebbe la sfiducia a Bondi?
«È un errore impostare la questione in termini di fiducia o sfiducia. A parte che la Casa dei Gladiatori era in parte un falso risalente agli anni 60, e non sarebbe stato male ricordarlo, il punto è dare al ministro della Cultura le risorse necessarie».
Eppure all’estero c’è una grande domanda di Italia, non trova?
«Italia è molto meglio di come noi, in modo punitivo, ci rappresentiamo. Non è giusto addossare la colpa delle nostre difficoltà agli operai. Per uno che non lavora, ce ne sono dieci che si impegnano. La responsabilità è di chi sta al timone delle imprese e della politica. L’impresa deve insegnare a collaboratori e dipendenti l’appartenenza, a essere compartecipi di un processo che porta risultati, che mantiene famiglie, che manda bambini a scuola, che trasmette l’orgoglio di far parte di un Paese. La politica deve ricreare le condizioni dell’appartenenza, che sono fondamentali per chiunque: l’identità italiana, il rischio d’impresa, lo sviluppo, la ricerca. Non si può pensare a un Paese che non investe sulla ricerca, sull’università. Scommetto che su questo destra e sinistra sono concordi. Allora, cosa lo impedisce?».
La risposta è sempre la stessa: mancano i soldi.
«Troppo facile. Non sono d’accordo. È una risposta banale. Se fosse introdotta una tassa per la scuola, la ricerca, l’università, i beni culturali, gli italiani la pagherebbero volentieri. Purché i loro soldi finissero davvero lì, e non a finanziare enti misteriosi. E poi l’Italia dovrebbe alleggerirsi, spogliarsi di tantissime cos e che si sono stratificate in questi cinquant’anni, fare pulizia di cavilli e complicazioni. Soprattutto, dobbiamo liberarci dal senso di impotenza che ci soffoca: come se le cose non potessero cambiare».
Lei chiede nuove regole sul lavoro. Ma già si sostiene che il lavoro è troppo precarizzato.
«Io non ho precari in azienda. Alla Prada i precari non esistono. Alcuni hanno un contratto a termine, ad esempio chi fa un’attività specifica, come la messa in opera delle attrezzature. Gli altri sono assunti a tempo indeterminato. Ci sono regole sbagliate, e gente che le applica in modo sbagliato. Il precariato dovrebbe essere lo strumento per far accedere i giovani al lavoro; ma l’azienda che ne fa un uso improprio, dilatato nel tempo, usufruisce in modo sbagliato delle norme. Se poi assume in nero immigrati clandestini — e ne abbiamo un milione e mezzo —, fa concorrenza sleale e carica un costo alla collettività; perché se il clandestino cade e si fa male, al Niguarda mica possono mandarlo via». Cosa pensa di Emma Marcegaglia? «È una brava ragazza, dice cose condivisibili. Il problema non sono le persone. Sono le cose da fare». Com’è amministrata Milano? «Il miglior sindaco è stato Albertini. Se si ripresentasse, prenderebbe un sacco di voti. Formigoni mi pare si muova bene. Ma non sono abbastanza addentro per dare altri giudizi».
Come ha conosciuto sua moglie, Miuccia Prada? Circolano leggende metropolitane, tipo un incontro in tribunale: la signora l’avrebbe querelata perché lei le copiava le borse…
«Questa è la prima volta che la sento. Ci siamo conosciuti nel 1978, sul lavoro. E non avrei potuto copiare nulla: ero suo fornitore. Vengo da una famiglia di avvocati, ma fin da ragazzo ho sempre avuto il gusto del prodotto, della materia, del fare. Ora mi piace cucinare gli antichi piatti della cucina toscana dell’800, influenzati dalla Francia: lepre in dolceforte, pasticcio di piccione, fagiano con panna e tartufo nero…».
Qual è il segreto di un matrimonio così lungo?
«Mai tentare di prevalere sull’altro. Trovare di continuo territori di confronto: famiglia, affetti, amicizie. E non parlare mai di lavoro a casa».
Un’altra leggenda metropolitana riguarda i suoi attacchi d’ira. È vero che una volta ha preso a martellate le auto in un parcheggio?
«Ma no. Diedi una martellata al fanalino di una macchina, che nonostante lettere e cartelli era sempre parcheggiata male e ostruiva il magazzino. Non sono iracondo. Semplicemente, vengo da una regione, la Toscana, in cui per esprimere disagio o sorpresa si parla un linguaggio boccaccesco. È una questione cul-
turale: in Lombardia, Veneto, Piemonte hanno avuto per secoli re o imperatori, e sono più rispettosi del potere. Noi toscani usiamo la lingua in modo diverso, più dichiarato, preciso, "violento"».
Com’è il suo rapporto con Anna Wintour, l’ispiratrice del film «Il diavolo veste Prada»?
«Ottimo. Parlando un pessimo inglese, mi proteggo da eventuali complicazioni. La Wintour è una donna volitiva, molto brava nel suo lavoro. Come Carine Roitfeld in Francia e Franca Sozzani in Italia».
L’avventura della vela è chiusa?
«Per ora sì. Nel 2013 faranno la Coppa America con la nuova formula, senza di noi. Vedremo se ci torneranno voglia e interesse».
Il calcio non la tenta?
«Tifo Juve fin da ragazzo. Purtroppo ho un figlio milanista; l’altro è juventino come me. Seguo il calcio. Ma mi fa impressione il pensiero che il proprietario di una squadra sia destinato a spendere, senza arrivare mai al pareggio, tranne forse in qualche grande club. La trovo una follia».
A che punto è il progetto del vostro nuovo centro d’arte contemporanea a Milano?
«Il primo giugno cominciano i lavori, in largo Isarco. Capannoni bassi, una torre di trenta metri. La nostra collezione e grandi spazi per le mostre».
Quali artisti predilige?
«Siamo in una fase molto vivace. Superati i due grandi filoni del pop e del minimal, gli artisti si esprimono con vari strumenti, dal video al ritorno della forma. Mi piace molto Cattelan, sono suo amico. Ora abbiamo una mostra di Baldessari, che rivisita Giacometti. Il direttore della Fondazione, Germano Celant, mi ha aiutato molto a capire come si è mosso il mondo, come l’arte dall’America è tornata in Europa e da qui nei Paesi emergenti, in Cina, in Africa. È un grande momento per l’arte».
Aldo Cazzullo