Tito Boeri, la Repubblica 25/11/2010, 25 novembre 2010
Il limite dei salvataggi - Quale limite? Perché un limite ci deve essere. Se c´è una lezione da trarre dal caso irlandese è che non è possibile offrire garanzie pubbliche illimitate contro il rischio di insolvenza
Il limite dei salvataggi - Quale limite? Perché un limite ci deve essere. Se c´è una lezione da trarre dal caso irlandese è che non è possibile offrire garanzie pubbliche illimitate contro il rischio di insolvenza.Bisogna essere per forza di cose selettivi, decidere cosa e quanto salvare e cosa e quanto no. Il primo ministro irlandese, Brian Cowen, il 29 settembre 2008, di fronte al precipitare della crisi, ha offerto una garanzia pubblica illimitata al sistema bancario, un vero e proprio assegno in bianco. All´epoca non era ancora chiara l´entità dell´impegno preso. Si è poi scoperto che le perdite del sistema bancario irlandese in un solo anno ammontavano a quasi un terzo del prodotto interno lordo del paese, un´enormità. Quell´impegno preso all´inizio della crisi si è rivelato, col senno di poi, troppo oneroso. Troppo anche per un paese fino a quel punto con finanze pubbliche in ordine, un basso debito pubblico (un quarto del nostro in rapporto al reddito generato ogni anno) e in forte crescita, anche se in parte dopata dal boom immobiliare. La seconda decisione da prendere, il secondo limite, riguarda cosa salvare. L´Irlanda ha scelto di salvare le banche, non direttamente i posti di lavoro o le persone colpite dalla crisi. Il governo ha addirittura tagliato i trasferimenti sociali nello sforzo di contenere la spesa pubblica. Sono scelte non ideologiche, ma dettate dalle circostanze e dalle dimensioni del settore bancario irlandese. L´opposizione in Irlanda si è impegnata a portare avanti il programma di stabilizzazione del governo uscente e non solo per rassicurare i mercati in vista delle elezioni. Anche in Europa in generale il sostegno alle banche non dipende dal colore politico dei governi, bensì dalle dimensioni del settore bancario nei vari paesi. Più grande l´attivo del settore bancario in rapporto al pil, più forti gli stanziamenti concessi dai governi agli istituti di credito. È una relazione in parte dettata dal fatto che le "grandi banche non possono fallire", dal timore che l´insolvenza causi effetti a catena sull´intera economia, ma anche probabilmente un riflesso del peso che le lobby bancarie hanno sul governo dell´economia. Si diventa grandi per contare di più, per essere messi nelle condizioni di non fallire. Shane Ross in "The Bankers", il libro in cui ricostruisce come le banche abbiano messo in ginocchio l´Irlanda narra come Jean FitzPatrick, il Presidente della Anglo Irish Bank (Aib), la più grande banca irlandese, era così basso di statura da soffrire della sindrome del "piccolo uomo". Per questo avrebbe trasformato la sua banca, una piccola banca, in un colosso. Più probabile, crediamo, che lo abbia fatto per potersi poi permettere di tutto. Ci è solo in parte riuscito (ha dovuto dimettersi travolto dagli scandali), ma la sua banca è sopravvissuta proprio perché ritenuta troppo grande per fallire. Ciò che è grande in un piccolo paese, può non esserlo più quando si opera su scala più vasta. Le grandi banche irlandesi non paiono così grandi quando le si rapporta al prodotto interno lordo dell´intera area dell´euro. È proprio per questo che la crisi impone di rafforzare il processo di integrazione europea nella regolamentazione dei mercati finanziari e degli aiuti di stato. Ai cittadini e ai governi pare come una rinuncia alla sovranità nazionale. Ma a ben guardare non lo è affatto. È un modo di sfuggire alla dittatura delle grandi banche e delle grandi istituzioni finanziarie. Trasforma dei giganti in dei nani, sottraendo chi deve decidere al loro ricatto, più o meno esplicito e liberando risorse per interventi a sostegno dell´economia reale, dei posti di lavoro anziché delle istituzioni finanziarie. Il problema è che il coordinamento a livello europeo è complesso perché i processi decisionali sono lunghi, perché mancano leadership continentali, perché permangono poteri di veto che permettono anche ai piccoli paesi, maggiormente soggetti al ricatto delle grandi banche, di bloccare le decisioni. È avvenuto così che anche in Europa non si sia deciso. Sono stati fatti stress test delle banche solo per evitare di scegliere fra chi salvare e chi no prima del precipitare della crisi. Questi test promuovevano a pieni voti le due banche irlandesi al centro del programma di salvataggio. Gran parte della gestione della crisi sui mercati finanziari è così ricaduta sulla Banca centrale europea, che non può sostituire la politica nel decidere quanto e cosa salvare. La Bce ha continuato a fornire liquidità alle banche irlandesi e di altri paesi periferici a un tasso dell´1 per cento, di fatto offrendo loro un ingente sussidio (sul mercato avrebbero potuto indebitarsi a tassi fino a 10 volte superiori) e riempiendosi di titoli rischiosi, assunti come garanzia dei prestiti erogati. Finchè la politica non stabilirà dei limiti, imponendo alle banche e ai governi che non li rispettano di ristrutturare il loro debito, sarà sempre in ritardo e inefficace nell´evitare il contagio. Non si può delegare questo compito a una banca centrale. Facciamo bene perciò a prepararci al peggio, all´eventualità che la crisi si estenda (chi ha detto che era finita?) e possa costringerci a pagare ancora di più per servire il nostro debito pubblico. Il modo migliore per scongiurare questa possibilità è tenere sotto controllo i conti pubblici e renderli più trasparenti. Il maxiemendamento alla legge di stabilità non lo fa. È una manovra pre-elettorale, basata in buona parte su coperture fittizie e temporanee, come discusso in dettaglio su lavoce.info. Fondamentale anche utilizzare la nostra arma nascosta, l´immensa area di evasione fiscale che potrebbe generare entrate capaci di farci reggere anche uno shock molto forte. Purtroppo in questa legislatura, come recentemente certificato anche dal Centro Studi Confindustria, l´economia sommersa è ulteriormente aumentata, superando il 20% del pil nel 2009 (contro il 17 per cento del 2008). A quanto pare o il governo continua a non reprimere l´evasione fiscale oppure gli italiani non credono nelle sue reali intenzioni di farlo. Oppure entrambe le cose. In ogni caso, bene allora che almeno ad una cosa la crisi politica serva: cambiare le aspettative dei nostri concittadini, convincerli che col nuovo governo si cambierà davvero registro nel contrastare efficacemente l´evasione fiscale e nel non fare più condoni. Bene anche per questo fare in fretta. Quale che sia la soluzione – nuove elezioni o esecutivo di transizione – che verrà alla fine trovata.