Roberta Mercuri, varie, 25 novembre 2010
MATRIMONIO O CONVIVENZA?, PER VOCE ARANCIO
«Il matrimonio nel 2000 è anacronistico come andare in giro in carrozza ai tempi di Blade Runner» (Fabio Volo).
Al sondaggio “Matrimonio o convivenza?” proposto nelle scorse settimane da VoceArancio hanno risposto 1.865 lettori: 999 (il 53,6 per cento) hanno votato la prima forma di unione, 866 (il 46,4) la seconda.
Negli anni Settanta in Italia i matrimoni erano 400 mila l’anno, oggi sono 250 mila. Un bambino su cinque nasce fuori dal matrimonio (dati Istat).
In Gran Bretagna, Germania, Francia, Danimarca, Finlandia, le coppie che scelgono la convivenza hanno superato quelle che si sposano (sono oltre il 50 per cento).
Secondo l’Istat in Italia solo il 5 per cento delle coppie conviventi non sono coniugate. Si tratta di un numero esiguo (interessa 637 mila persone su una popolazione che sfiora i 60 milioni), ma in deciso aumento dal 2001 al 2007: dal 3,1 al 4,6 per cento del totale delle coppie. La statistica, comunque, non rende ragione di una forte differenziazione territoriale visto che la cifra, modesta, del 2 per cento di coppie conviventi al Sud, abbatte la media nazionale. Mentre al Nord Est i dati Istat parlano già del 6,8 per cento, e del 4,8 al Centro. Inoltre i numeri ufficiali contano solo coloro che per un qualche motivo (la richiesta di un certificato di convivenza, il pagamento di una tassa sui rifiuti, l’iscrizione di un ragazzino a scuola) hanno bisogno di interagire con l’amministrazione pubblica.
«L’esperienza comune (chi di noi non conosce due giovani o due adulti che convivono?) dice che le convivenze sono in realtà molte di più. E gli stessi dati (anch’essi ufficiali) sul dimezzamento in dieci anni (da quattrocentomila a 250 mila l’anno) del numero dei matrimoni sia civili che religiosi, combinati ad uno dei tassi di nati per donna tra i più bassi d’Europa, fanno ritenere che quel cinque per cento nazionale sia in realtà la punta di un iceberg, per sua natura stessa refrattario ad emergere. Se l’attuale trend dovesse proseguire, nel 2015, infatti, in Italia, le convivenze supereranno i matrimoni, come del resto già avviene nelle grandi città del Nord. Questo perché ormai vive insieme al partner senza alcuna formalità una donna su tre tra quelle nate alla fine degli anni Settanta, e quando avranno diciotto anni le bambine nate negli anni Novanta, la percentuale potrebbe quasi raddoppiare» (Maria Antonietta Calabrò sul Corriere della sera).
Demografi e sociologi distinguono quattro tipi diversi di convivenze, ognuna delle quali è in aumento per varie cause. Ci sono innanzitutto le convivenze prematrimoniali sostitutive del periodo di fidanzamento (di giovani adulti che normalmente valutano di sposarsi in futuro, per mettere al mondo dei figli e che se solo la “prova” va male non contrae matrimonio: tempo medio della convivenza tra i due e i cinque anni). Ci sono poi le coppie di fatto dovute a impossibilità a contrarre matrimonio: a) adulti già sposati e non ancora divorziati; b) persone di mezza età (se non anziani) che non vogliono perdere con un nuovo matrimonio vantaggi pensionistici, fiscali o patrimoniali; c) coppie omosessuali (che per legge in Italia non possono sposarsi). Al terzo posto le cosiddette unioni libere, dovute alla scelta di un particolare stile di vita. E, infine, c’è chi vuole vivere in base a patti di solidarietà alternativi al matrimonio secondo una tendenza descritta in Francia già quindici anni fa dalla sociologa del diritto, direttrice della ricerca della Scuola di alti studi sociali (Ehess) di Marsiglia Irène Théry nel volume Demariage (unioni civili che prevedono meno diritti, meno doveri).
Alessandro Rosina, demografo, docente alla Cattolica di Milano: «Le diciottenni di oggi non si sposeranno senza prima aver provato a convivere, in media per due anni. Ciò non significa che il matrimonio non abbia più valore, al contrario, per molti resta un traguardo. Ma non al primo colpo» (a Repubblica).
Chiara Saraceno, sociologa della famiglia: «Queste coppie sono assai più paritarie del passato per età e reddito ma anche per condivisione dei lavori domestici. La caratteristica è un confronto continuo che deve confermare o smentire la scelta iniziale: “Vediamo come ti comporti, poi decidiamo”, è il messaggio [...] Il matrimonio si è trasformato da rito di passaggio all’età adulta a rito di conferma. Perfino la Chiesa cattolica si è adattata: nei corsi prematrimoniali si parla ormai pochissimo di sesso, e l’abito bianco viene considerato come il simbolo di un “nuovo inizio” anziché della verginità della sposa» (a Repubblica).
Che vantaggio c’è, dal punto di vista fiscale ed economico, a sposarsi anziché convivere?
«Le coppie sposate, in base al reddito e all’età dei figli, hanno diritto agli assegni familiari. Non solo: chi è sposato ha diritto al 40 per cento del Tfr del coniuge, e chi è separato gode della pensione di reversibilità. Tutti questi vantaggi, per le coppie di fatto, non esistono» (l’avvocato matrimonialista Matteo Santini a VoceArancio).
Più che sposarsi, per pagare meno tasse in certi casi conviene separarsi. Secondo l’Associazione per la legalità e l’equità fiscale (Lef), infatti, sono sempre più numerose le famiglie monoreddito che per risparmiare sull’Irpef decidono di percorrere la strada della falsa separazione matrimoniale. E nel caso di una famiglia con due figli e un imponibile monoreddito di 80 mila euro, il risparmio può arrivare fino a 5 mila euro: «Prima della separazione il marito pagava imposte per 29.170 euro. Se invece attua una finta separazione nella quale dichiara di dare un mantenimento di 20 mila euro alla moglie, ridurrà il proprio carico fiscale a 60 mila euro. Non solo: passando anche un assegno per i figli consentirà di riapplicare le detrazioni a carico che sopra i 75 mila euro di reddito si azzerano. La famiglia di finti separati nella nuova situazione dovrà presentare due dichiarazioni: il marito su 60 mila euro di reddito, la moglie su 20mila euro. Alla fine, per il meccanismo della tassazione progressiva, il risparmio sarà di 4.519 euro: dai 29.170 euro pagati in precedenza dal marito si scende ai 24.651 euro versati in modo separato dai due coniugi. Oltra ad altri benefici: la casa tenuta a disposizione potrà essere ora considerata abitazione principale, tanto che non pagherà l’Ici e otterrà anche una riduzione della Tassa sui rifiuti» (Andrea Carli sul Sole 24 Ore).
La maggioranza delle convivenze, secondo il Censis, è costituita «da chi non vuole dare nessun tipo di regolarità alla propria vita» (20%) e da chi «non intende stabilizzare l’unione per motivi pratici che hanno a che fare con il fisco, con il patrimonio e con la sistemazione futura dell’eredità o per non perdere l’assegno di mantenimento proveniente da un precedente matrimonio» (40%). Il fondatore del Censis, Giuseppe De Rita: «È per questo che, a differenza di quanto è avvenuto per l’aborto, e per il divorzio non c’è pressione sociale per una regolazione delle convivenze e il dibattito su Dico e dintorni si è arenato» (a Maria Antonietta Calabrò sul Corriere della Sera).
Nel 2007 il disegno di legge sui Dico (Diritti e doveri delle persone stabilmente conviventi), presentato tra mille polemiche dal governo Prodi, si fermò al Senato. Nel 2008, governo Berlusconi, furono i ministri Brunetta e Rotondi a tentare con i DidoRe (Diritti e Doveri di Reciprocità dei conviventi). Stesso risultato: un gran polverone finito nel nulla.
Come funziona negli altri Paesi:
Francia. Dal 1999 ci sono i “Pacs”. Si tratta di un contratto che si applica anche alle coppie dello stesso sesso o di amici. Prevede la dichiarazione dei redditi in comune, uno sconto sulla successione, subentro nell’affitto del domicilio comune, congedi per lutti o incidenti e previdenza sociale estesa.
Spagna. In attesa di regole nazionali, si applicano quelle delle Comunità autonome (Regioni) che prevedono alcuni diritti (adozioni, affitti, fecondazione assistita) ma non l’equiparazione ai matrimoni.
Germania. La convivenza non è equiparata al matrimonio, ma attraverso autorizzazioni scritte le coppie possono regolare alcuni aspetti. Eredità e alimenti (in caso di separazione) sono previsti per i figli, ma non per la madre. Nessun vantaggio fiscale.
Regno Unito. Con una legge in vigore dal 2005 i conviventi hanno gli stessi diritti degli sposati in materia di proprietà, eredità, patria potestà dei figli. Stesse responsabilità per il mantenimento del partner e dei figli di quest’ultimo, previste esenzioni fiscali.
In Italia da tempo molti comuni e molte regioni hanno cercato di trovare una soluzione per aiutare le coppie di fatto ad accedere ai servizi pubblici: dagli alloggi popolari alle iscrizioni dei figli a scuola. Alcuni, come Firenze, Ancona e Foggia, si sono dotati di registri delle unioni civili, dove possono iscriversi le coppie legate affettivamente che vivono insieme. Altri, come Torino, Bologna, Padova e Bari, rilasciano certificati di “famiglia anagrafica basata su vincoli affettivi e di convivenza”: a chi ne fa richiesta gli impiegati dell’anagrafe rilasciano una dichiarazione che riconosce l’esistenza di un’unione civile. Il documento è valido per accedere ai servizi e ai benefici previsti dall’amministrazione comunale.
Che diritti garantiscono i certificati di convivenza?
«Al di là dei vantaggi, ad esempio in materia di alloggi, stabiliti dai singoli Comuni, nessuno. Si tratta di documenti che hanno soprattutto un valore anagrafico-statistico».
Un certificato di convivenza non assicura al partner diritti ereditari?
«No. E nemmeno il diritto di assistere il partner, in caso di malattia, in ospedale. Dal punto di vista del diritto di famiglia, insomma, non cambia nulla» (Matteo Santini a VoceArancio).
«Se in questo paese non si farà la legge sui Pacs, e sono convinto che non si farà, sposerò Francesca. Non voglio correre il rischio che lei possa essere danneggiata in qualsiasi modo dalla sua condizione di donna non sposata» (l’attore Claudio Amendola a proposito di Francesca Neri, con cui convive da anni e che gli ha dato un bambino di nome Rocco).