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 2010  novembre 25 Giovedì calendario

IN CATENE NEL DESERTO: L‘ODISSEA INFINITA DEGLI ERITREI


Prigionieri nel Sinai, in catene co­me schiavi, ostaggio dei traffi­canti egiziani. Così è finita una parte consistente, ben 80 dei 255 eri­trei che nel luglio scorso avevano ri­schiato di morire nella famigerata pri­gione libica di Al Braq, in pieno Saha­ra, dopo essere stati respinti in mare dall’Italia e poi liberati grazie alla pres­sione delle organizzazioni umanitarie sul nostro governo. Un mese fa alcuni di loro sono fuggiti dalle sabbie libi­che alla volta di Israele, su una delle nuove rotte della disperazione verso l’Europa, che ora incrociano il Medio Oriente e la Turchia, a rischiare di mo­rire in un altro deserto. L’allarme è stato lanciato ieri, esatta­mente come l’estate scorsa, dal blog dell’agenzia di cooperazione allo svi­luppo Habeshia. Secondo la quale ci sono 600 persone in condizioni di­sperate da oltre un mese nel deserto al confine tra Egitto e Israele, prigionie­re del racket. Oltre agli 80 eritrei fug­giti da Tripoli, somali e sudanesi. Tra questi, vi sono anche donne, segnala il blog curato da Roma dal sacerdote cattolico eritreo Mosè Zerai. Ciascuno ha versato al racket 2.000 dollari. Ma i trafficanti ne pretendono altri 8.000.
«Gli eritrei – racconta don Mosè – mi hanno raccontato di aver lasciato Tri­poli per raggiungere Israele dall’Egit­to. Ma nel corso del viaggio i trafficanti hanno tradito gli accordi e il prezzo è aumentato. Così li hanno sequestrati». Sulla loro drammatica condizione sap­piamo solo quanto hanno raccontato al prete. «Dicono di trovarsi nel Sinai, segregati dai beduini nelle case nel de­serto, ma non sanno dire dove perché sono stati incappucciati durante gli spostamenti. Da un mese sono legati con le catene ai piedi, come si faceva nel commercio degli schiavi, conti­nuamente minacciati e da 20 giorni non toccano acqua per lavarsi. Vi so­no anche donne debilitate dalla man­canza di cibo e dalla scarsa igiene».

Non sono i primi a subire questa sor­te. Questa forma di sequestro che sfrutta la disperazione dei profughi è redditizia. Già un anno fa l’agenzia Fortress Europe segnalava questa nuo­va rotta che parte dal Cairo verso la frontiera israeliana nel Sinai e dalla quale passano mille persone al mese, quasi tutti eritrei ed etiopi. Nei casi peggiori i passeggeri dopo aver paga­to sono abbandonati lungo il confine. «Purtroppo – aggiunge don Mosè – questa situazione è anche frutto della chiusura delle frontiere dell’Europa. i richiedenti asilo provenienti dal Cor­no D’Africa non hanno alternative e si affidano ai sensali di carne umana». Ieri il senatore Pietro Marcenaro, pre­sidente della Commissione straordi­naria per i Diritti Umani, ha presenta­to un’interrogazione urgente al mini­stro degli Esteri in cui si chiede di ve­rificare la situazione degli 80 eritrei trattenuti in Egitto e di muovere tutti i passi necessari nei confronti del go­verno del Cairo per salvarli.
Ma torniamo in Libia, dove a luglio e­splodeva il caso di 205 uomini e 50 donne fuggiti dall’Eritrea. Nel 2009 e nel 2010 avevano tentato di passare per l’antica rotta del Mediterraneo ed erano stati respinti in mare e poi ar­restati. Ai primi di giugno, ad esem­pio, una ventina di eritrei venne in­tercettata e respinta su un barcone diretto in Italia in circostanze mai chiarite. Videro un’imbarcazione con bandiera italiana e si avvicinarono, ma a bordo c’erano militari libici che li riportarono indietro. Il ritorno fu drammatico. «Una persona è anne­gata in mare, altri tre che conosceva­no l’arabo sono stati malmenati per­ché si sono ribellati. Da quasi sei me­si nessuno ha più notizie di loro. Una donna e il suo bambino di otto mesi sono stati incarcerati al buio per ore senza ricevere cibo né acqua.». A fine giugno, dopo una rivolta nel centro di detenzione libico di Misurata, i ma­schi vennero trasferiti nel durissimo carcere di Al Braq, a Sebha, a sud, nel deserto. Le donne rimasero a Misu­rata e furono sottoposte a violenze e atti degradanti.
Ma ai primi di luglio qualcuno riuscì ad avvisare don Zerai, che rilanciò la notizia su Habeshia. Allora i 255 ven­nero rilasciati approfittando della nuo­va legge varata da Tripoli contro l’im­migrazione clandestina che prevede­va una sanatoria, con un permesso provvisorio di tre mesi e il divieto di lasciare la città. Ora, però, i permessi sono scaduti e siamo da capo.
«Chi non è fuggito è intrappolato nel­le città libiche – chiarisce il sacerdote – senza diritti. In tutto in Libia vi sono un migliaio di eritrei, tutti a luglio han­no beneficiato della sanatoria. Chi ha potuto si è spostato verso Tripoli o Bengasi e lavora in nero. Per rinnova­re il permesso devono, però, presen­tarsi con il passaporto eritreo e un con­tratto di lavoro. Altrimenti devono ri­volgersi alle autorità diplomatiche del loro Paese. Naturalmente non posso­no farlo in quanto rifugiati».
Chi va in ambasciata rischia infatti la deportazione o vendette contro i con­giunti rimasti nel Corno d’Africa. Ma, se non rinnovano il permesso, si spa­lancano le porte delle carceri. «Ho ap­pena ricevuto – racconta il prete – chia­mate che riferiscono di retate della po­lizia casa per casa. E tornare in quelle prigioni è terribile: vivono ammassa­ti e senza potersi lavare, sono maltrat­tati. Molte donne sono state violenta­te e messe incinta dalle guardie carce­rarie ». Chi può fugge allora dall’infer­no, come gli 80 ora però imprigionati nel Sinai.
Stando alla convenzione sui diritti u­mani queste persone non sono crimi­nali, ma avrebbero diritto a chiedere asilo e ad essere protette dai governi della civilissima Europa.