MASSIMILIANO NEROZZI, MARCO ALFIERI, La Stampa 25/11/2010, pagina 14-15, 25 novembre 2010
Dall’abito a Internet il calciatore aziendalista - Con il contratto juventino autografato martedì sera da Giorgio Chiellini, la partita s’allarga a ventiquattro ore, e il campo alla vita di tutti i giorni
Dall’abito a Internet il calciatore aziendalista - Con il contratto juventino autografato martedì sera da Giorgio Chiellini, la partita s’allarga a ventiquattro ore, e il campo alla vita di tutti i giorni. Dall’abbigliamento, politically correct, alle uscite in discoteca, dai messaggi su twitter alle cure mediche, le obbligazioni contrattuali disciplinano l’esistenza anche fuori dal prato: scarpe e uniforme ne fanno un calciatore, mestiere e quattrini (reciproci) un professionista. Dal modulo federale tipo, un prestampato da tabaccheria, si passa a un accordo di una decina di pagine, esaustivo nella trattazione e minuzioso nelle clausole. A occhio, il protopipo dei contratti che verranno, chissà se di quello collettivo che ancora non c’è, e per il quale Lega dei club e sindacato calciatori ancora bisticciano. Di certo la firma di Chiellini un po’ di chiasso l’ha fatto, se ieri il vicepresidente dell’Assocalciatori, Leonardo Grosso, ne ha contestato la validità, per poi aggiustare la linea. Materia di duello, visto che il presidente della Juve, Andrea Agnelli, è tra i profeti della riforma, e l’avvocato Michele Briamonte, membro del cda bianconero, ha levigato articoli e commi. Chiello, poi, mica è uno qualunque: 26 anni, gli ultimi cinque passati alla Juve, fresca laurea in Ecomomia e commercio, è uno da spot. Sul campo e fuori: trave portante della difesa bianconera e della Nazionale, è finito sulla copertina del più popolare videogame di calcio (con Kakà). Anche se ieri voleva abbassare il volume: «Personalmente ho sempre sostenuto l’associazione calciatori e il mio contratto rappresenta un accordo che tiene in considerazione la complessità di un rapporto professionale come quello tra società sportive e calciatori di serie A». Complesso, appunto. Eccone le principali obbligazioni. Le regole sul campo Il giocatore ha l’obbligo di allenarsi, anche separatamente dal gruppo (prima era era vietato). E deve accettare le direttive e le decisioni tecniche dell’allenatore durante la partita, evitando commenti plateali. Attività imprenditoriali e sponsor Senza il consenso preventivo, e scritto, della società, il calciatore non potrà avviare un’altra attività professionale o imprenditoriale, come una pizzeria, o la pescheria di Gattuso, per esempio. Vietato partecipare ad attività potenzialmente sconvenienti per un atleta professionista, come le scommesse, il gioco d’azzardo e le serate in discoteca. Così come il club dovrà preventivamente autorizzare eventuali contratti individuali di sponsorizzazione. Condotta di vita Il codice etico e i regolamenti interni del club entrano nel contratto: il giocatore ha l’obbligo di seguirli, a pena di sanzioni. È richiesto un contegno di vita adeguato a un calciatore professionista e in linea con lo stile del club. Nella dittatura dell’immagine, un’occhiata all’abbigliamento: meglio se elegante o casual elegante, mai trasandato o tale da far trasparire preferenze politiche o ideologiche del calciatore. Da evitare condotte che possano far pensare a qualsiasi discriminazione razziale o ideologica. Mass media Divieto di fare pubbliche dichiarazioni senza l’autorizzazione del club: rientrano nella giurisdizione i siti web personali o i social network, da facebook a twitter. Salute Alle cure mediche ci pensa la società, a meno che il giocatore voglia scegliersi medici di fiducia: nel caso pagherà, e occorrerà l’assenso del club sulla loro professionalità. Trattenute e multe Infrangere le regole costerà caro, fino al 30% sulla retribuzione annuale e i premi. In caso di retrocessione o risultati che pregiudichino pesantemenre i ricavi della società, retribuzione e premi saranno ridiscussi: senza accordo, previsto il taglio del 30%. C’è la possibilità di applicare sanzioni contrattuali fino al 10% dello stipendio e dei premi annuali, con facoltà di cumulo. Massimo della pena: l’esclusione dalla rosa o la sospensione di permessi e ferie. MASSIMILIANO NEROZZI *** “Il calcio arriva tardi” Una donna svizzera ha appena perso il posto perché, a casa in malattia, si è connessa ad un social network raccontando particolari aziendali. «Chi usa la Rete può anche lavorare», ha motivato il taglio la compagnia che l’ha licenziata. La settimana scorsa il National Labor Relations Board statunitense ha invece aperto una vertenza contro l’ American Medical Response del Connecticut. Al centro delle accuse il licenziamento di un’assistente medico, colpevole di aver insultato i propri capi sul proprio profilo Facebook. Dawnmarie Souza non ha preso bene le accuse dei superiori dopo le lamentale di un paziente, così si è sfogata online. Insomma piccole schegge dalla nuova frontiera della reputazione aziendale. Con Facebook si trovano amici ma si rischia di perdere il lavoro. Infilarsi metaforicamente una maglietta, fare parte di una organizzazione complessa, impone sempre più vincoli e obblighi comportamentali. Per questo gli addetti ai lavori dicono al calcio «benvenuto, buon ultimo, anche rispetto alla Formula Uno o alle discipline Usa (Basket, Baseball e Football)», spiega l’avvocato giuslavorista, Gabriele Fava, consulente di molte grandi aziende. «Per un dirigente ma anche un semplice addetto è impensabile assumere comportamenti, pubblici e privati, che possano penalizzare l’immagine del gruppo». «Al momento dell’assunzione si firma un codice di condotta in cui ci si impegna, pena il licenziamento, a promuovere la filosofia del gruppo per cui si lavora», ragiona il presidente di Federmanager Giorgio Ambrogioni. Anche con tratti maniacali. Quando Chrysler era malconcia e fu acquistata dal fondo Cerberus, il big boss Steve Feinberg smise di circolare con la sua fuoriserie facendosi vedere in giro su una fiammante Jeep. Non mancava occasione di reclamizzarla. La cosa fece sorridere la stampa americana che ne denunciò la sbornia neo aziendalista. Il capo di Hewlett Packard, Mark Hurd, questa estate è stato licenziato perché accusato di aver violato i codici di comportamento aziendali nelle relazioni con una collaboratrice: nello specifico molestie sessuali e rimborsi spese sospetti. Il rilancio del gruppo non è bastato a salvarlo dal sexgate. Per HP ha infranto il codice interno gettando fango sulla società. Per la cronaca, poche settimane dopo Hurd è stato assunto dai rivali di Oracle, ma tant’è. Oggi le aziende possono finire in ginocchio per i comportamenti di un singolo dipendente. Un colpo all’immagine si trasferisce immediatamente sul destino di un prodotto o sul titolo in borsa. Per questo si stanno dotando di veri e propri «reputational risk manager», dirigenti addetti al rispetto dei codici interni. Non solo etici, ma anche di coerenza rispetto al business. In Microsoft ad esempio «è impensabile che un nostro dirigente partecipi ad un convegno proiettando delle slide da un computer griffato Apple o si metta a telefonare con l’Iphone. Tenersi sulla propria catena di prodotti è il primo requisito da rispettare», raccontano fonti interne al gruppo. Il senso è che all’immagine diffusa di un’azienda contribuisce in modo determinante la reputazione dei propri rappresentanti. Il calcio sta semplicemente colmando un’arretratezza che 15 anni fa era la stessa delle imprese italiane rispetto a quelle anglosassoni. Oggi alcune multinazionali come Unilever e Procter and Gamble arrivano ad integrare le norme comportamentali vigenti in azienda direttamente nei contratti individuali di lavoro. Altre corporation, proprio a difesa del valore del brand, impongono il divieto di partecipazione a eventi organizzati da società concorrenti, quello di indossare pubblicamente abbigliamento o usare oggetti o mezzi non in linea con la filosofia interna (codice adottato da quasi tutte le griffe di moda e dalle case automobilistiche) o consumare cibi o bevande o prodotti incoerenti con il profilo aziendale. «Fino al caso classico di non poter consultare siti hard anche fuori del posto di lavoro, o appunto alle limitazioni nell’accesso ai social network», prosegue Gava. «Non soltanto puoi perdere il posto di lavoro, ma sei passibile di risarcimento per danno d’immagine alla società stessa». MARCO ALFIERI