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 2010  novembre 24 Mercoledì calendario

PERCHÉ IL WELFARE DEL FUTURO SARÀ PRIVATO

Le famiglie italiane non sono soltanto formidabili ammortizzatori sociali. Sono anche instancabili formiche: il nostro tasso di risparmio è fra i più alti del mondo. Solo due Paesi risparmiano più di noi: Norvegia e Australia. Risparmio vuol dire casa, depositi bancari e conti correnti che non vanno in rosso. È difficile crederlo in tempi di crisi, ma metà della popolazione italiana possiede beni per più di 115 mila euro (come conferma un recente rapporto del Credit Suisse Research Institute). Siamo messi molto meglio non solo dell’Irlanda e della Grecia (ora sotto l’attacco della speculazione), ma anche del Regno Unito e della Francia. La crisi dell’ultimo biennio ha falcidiato i redditi da lavoro, ma ha intaccato poco i patrimoni degli italiani: meno 3%, rispetto al meno 4.8% dei patrimoni tedeschi e meno 29% di quelli spagnoli.
Il risparmio privato è una risorsa straordinaria per il Paese. Innanzitutto (l’ha spiegato più volte Marco Fortis sul Sole) esso rende relativamente più sostenibile il debito pubblico. Bene ha fatto il governo a insistere su questo punto nel corso dei negoziati sulla riforma del Patto di Stabilità e di Crescita dell’Unione Europea. Ma la capacità di risparmio delle famiglie ci consente di guardare con meno allarme anche al futuro del welfare: purché naturalmente si sia disposti a cambiare un po’ i nostri schemi di riferimento.
Lo Stato sociale ha oggi grosse difficoltà a finanziare i programmi in essere (che pure sono stati ridimensionati, pensiamo alle pensioni) e non ce la fa a rispondere ai nuovi bisogni. Nemmeno le famiglie, però, ce la fanno, soprattutto non da sole. I loro patrimoni sono spesso imprigionati in immobili, a cominciare dalla casa d’abitazione: venderla non conviene e comunque dispiace. Anche se si dispone di liquidità, le soluzioni individuali costano care, i risparmi finiscono presto.
C’è un modo per superare l’impasse? La sfida è quella di offrire alle famiglie nuovi strumenti di «investimento sociale» (volontario, se possibile con qualche incentivo fiscale) verso cui dirigere parte del proprio risparmio, in modo da avere accesso a forme di protezione più efficaci e meno costose rispetto al «fai da te».
Pensiamo alla non autosufficienza. Le famiglie si trovano oggi quasi sole di fronte ai bisogni dei loro anziani fragili. Alcune si assicurano privatamente, ma costa molto caro. Altre ricevono sussidi pubblici, ma sono poche. La maggioranza si arrabatta e spende fior di quattrini di tasca propria. A ciascuno di noi può capitare di perdere l’autosufficienza a un certo punto della vita. Se un rischio che è diventato quasi universale venisse condiviso all’interno di ampie categorie, su base territoriale oppure occupazionale, la copertura costerebbe molto meno e sarebbe più efficace. Il sistema potrebbe essere disegnato anche in modo da favorire un po’ le famiglie meno abbienti. Certo, l’operazione andrebbe costruita formando nuove alleanze fra soggetti non pubblici, promuovendo sinergie fra assicurazioni private, sindacati, datori di lavoro, eventualmente con la collaborazione degli enti locali. E bisognerebbe creare strumenti innovativi, dimostrando alle famiglie che si tratta di opzioni vantaggiose per proteggersi da alcuni rischi. Ma qual è l’alternativa? Lo status quo penalizza tutti (le donne in particolare). E la nuova fase di austerità permanente non lascia margini per l’introduzione di schemi pubblici universali finanziati da nuove imposte.
Il «primo» welfare ha ormai le armi spuntate, dobbiamo rimboccarci le maniche e costruire il «secondo». Non tutti i Paesi possono permetterselo. Per una volta, grazie alle sue famiglie-formiche, l’Italia ha un’opportunità in più: quella di creare un nuovo e robusto circolo virtuoso fra risparmio e welfare, con sicuri guadagni di efficienza.
Maurizio Ferrera