Annamaria Pasetti, il Fatto Quotidiano 24/11/2010, 24 novembre 2010
A PALO ALTO NEL CUORE DI FACEBOOK
Palo Alto, California. Destinazione il quartier generale di Facebook. Ci arriviamo in treno da San Francisco, il metallico Caltrain in un silenzioso vagone aromatizzato al silicio. Non c’è un sedile libero, ma non c’è corpo che non sia prono a un portatile, gli occhi fissi al monitor, l’udito imploso in auricolari. È un regno senza fili. Sempre più micro, perfetto, sottile, impenetrabile. Benvenuti nella Silicon Valley. Scorrono i paesi tutti uguali, organismi minimalisti wifizzati. Stazioni spettrali. Ad accoglierci è il vecchio compagno di liceo, Michele F., un abbraccio lungo quanto i vent’anni di separazione. Tutta colpa di Facebook. È stata la creatura di Mark Zuckerberg a farci ritrovare e scoprire – doppio click di sorpresa – che Michele a Facebook ci lavora. Lui che, inguaribile malato di computerfilia fin dall’adolescenza, a un certo punto ha detto fuck you alle università italiane fuggendo in quella valle. Lì ha studiato (seriamente) l’informatica, degno di merito è stato assunto dagli sviluppatori di Hotmail (proprio lei la Microsoft Corp. non chicchessia), e dopo vari qualificati incarichi e committenti, Zuckerberg l’ha preso con sé.
TRA I SOFTWARE engineer che sviluppano quei sofisticati e impenetrabili meccanismi attraverso i quali noi, comuni mortali, chattiamo, diventiamo “amici”, alziamo o abbassiamo i pollici. Worldwide. Tutto questo avviene in un luogo fisico e ci riempie di soddisfazione (e un pizzico di orgoglio) accostare la nostra all’esperienza evocata da quello strepitoso film che David Fincher ha intitolato The Social Network. Perché è esattamente così, non una virgola distorta dallo specchio fedele di quel mondo, in cui crescono e fluttuano i padroni del futuro immediato, se non già di oggi. Facebook è un centro di potere assoluto, dissimulato nei volti ancora quasi imberbi dei suoi impiegati, ignari di come si annoda una cravatta, forse quasi incapaci di camminare giacché ormai è lo skate l’unica velocità plausibile agli spostamenti tra un desk e l’altro, un ufficio e una cucina. Rapidità coerente al “chatmondo”, passato presente e futuro mai così contemporanei. All’entrata, inconfondibile , la gigantesca scritta bianca “face-book” su sfondo blu quasi elettrico: ci sentiamo quasi a casa, e ciò è inquietante. Ci accompagnano nei vari stanzoni, ognuno dei quali è fornito di immenso angolo cultura multietnica, perché “qui lavorano ragazzi di ogni parte del mondo”. Ovvero quante le lingue in cui è concepito il monster del più giovane miliardario “accidentale” della Terra. E le lingue crescono, la penetrazione capillare non conosce sosta. Scorgiamo numeri digitali che aumentano come i listini telematici di Wall Street: “Sono i numeri dei contatti che aumentano”. Sembra di stare in un film, in “quel” film, oppure no, è l’esatto contrario, il cinema in questo caso è realtà. Tutti sorridono, hanno almeno tre monitor sulla scrivania, gadget ovunque e di qualunque tipo. Una postazione ci cattura l’attenzione: una vera e propria tenda da campeggio verde ramarro sopra il desk, con tanto di pupazzi e lucetta sottostante. Scopriamo che ci lavora una ragazza cinese, e non ci permettiamo di dire “stravagante”, perché qui è la normalità. Musica ovunque, sembra un parcogiochi, ma sappiamo che invece è uno dei quartieri generali più produttivi e invasivi finora concepiti.
MENTRE camminiamo ci fanno notare un tizio, “è Mark”. Inutile descrivere la fotocopia del personaggio confezionato da Fincher sulla pelle di Jesse Eisenberg. Ci avviciniamo, un saluto rapida e Zuckerberg se ne va. Come un copione. Oggi, ripensando alla visita a distanza di un tempo indeterminato, sappiamo che di quel “futuro” siamo già prede non ancora perfettamente consapevoli. Michele F. nel frattempo è tornato in Italia con la famiglia, ha lavorato qualche mese e se n’è andato di nuovo, ora sta in Svizzera. Google l’ha voluto per sé. “In Italia non mi sentivo più a mio agio, non mi sentivo sincronizzato”. Lo dice con dolore, ma almeno ci ha provato. “Non voglio per ora tornare in Usa perché vorrei che i miei figli crescessero più vicini al Belpaese, la Svizzera offre vantaggi pari agli States”. E scopriamo che il nostro ex compagno di liceo è un meraviglioso cervello in fuga. Sorridiamo per lui, ma dentro c’è naturale amarezza.