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 2010  novembre 24 Mercoledì calendario

Yukio Mishima, l’eterna giovinezza di un samurai - Le parole non bastano. Così parlò Yukio Mishima, e il 25 no­vembre del 1970 si uc­cise davanti alle tele­camere col rito tradi­zionale del seppuku

Yukio Mishima, l’eterna giovinezza di un samurai - Le parole non bastano. Così parlò Yukio Mishima, e il 25 no­vembre del 1970 si uc­cise davanti alle tele­camere col rito tradi­zionale del seppuku . Alle parole seguì il gesto e la scrittura debor­dò nella vita per compiersi nella morte. Il suicidio eroico di Mishi­ma scosse la mia generazione, versante destro. Era il nostro Che Guevara, e sposava in capi­tulo mortis la letteratura e l’asso­luto, l’esteta e l’eroe, il Superuo­mo e la Tradizione. Lasciò un bri­vido sui miei quindici anni. Poi diventò un mito a diciassette, quando uscì in Italia Sole e accia­io , il suo testamento spirituale. È uno di quei libri che trasforma chi lo legge; gustato riga per riga, non solo letto ma vissuto, come un libro d’istruzioni per monta­re la vita, pezzo per pezzo. Altro che Ikea, il pensare si riversava nell’agire. Le parole non basta­no. Andammo in palestra, dopo quel libro, tra i manubri e i pesi, sulla scia di Mishima e del suo acciaio per scolpire il corpo al­l’altezza dei pensieri e per dare una vita ardita a un’indole intel­lettuale. Correvamo a torso nu­do d’inverno con alcuni pazzi amici per andare incontro al so­le. Dopo una corsa di dieci chilo­metri c’era un ponte che era la nostra meta finale perché sem­brava che corressimo verso il cie­lo. Arrivavamo sfiniti ma a testa alta, con uno scatto finale, e una benda rossa sulla fronte. Pazzi che eravamo, illusi di gloria. Ridi­coli. Vedevamo il sole come ob­­biettivo, non guardavamo sotto, all’autostrada, che banalmente scorreva sotto il ponte. Eravamo nella via del Samurai, mica sul­l’asfalto. Inseguivamo il mito. Un mito impolitico, che ci porta­va lontano dall’impegno mili­tante e ci avvicinava a quella co­munità eroica che Mishima ave­va fondato due anni prima di darsi la morte. Mishima diventò col tempo il nostro Pasolini, di­sperato cantore di un mondo an­tico contro il mondo moderno e le sue macerie spirituali,l’ameri­canizzazione e i consumi. Oggi di Mishima non è più proibito parlare, tutte le sue trasgressioni restano vietate, eccetto una che però basta a glorificarlo agli oc­chi del nostro tempo: Mishima era omosessuale. Sposato, ma omosessuale. E così viene oggi celebrato dai media e riabilitato. Su Radio3 è andato in onda qualche giorno fa un bel pro­gramma a lui dedicato di Anto­nella Ferrera. Ho scritto più vol­te di lui, accostandolo al Che, d’Annunzio e Pasolini. Fu gran­de gioia ripubblicare, con un mio saggio introduttivo, Sole e acciaio , dieci anni dopo la sua prima lettura. Avevo ventisette anni ma avevo un conto in sospe­so con la mia giovinezza, e fui feli­ce di onorarlo. Il peggior compli­me­nto che ricevetti fu da un pro­fessore che allora mi disse: è più bella la tua introduzione del te­sto. Mi piace ricevere elogi, non nego la vanità. Ma quell’elogio fu peggio di un insulto, disprez­zava il breviario della nostra gio­ventù. Come poteva paragona­re un saggetto giovanile e lettera­rio a un testamento spirituale co­sì denso e forte? L’ho riletto do­po svariati anni, quel piccolo li­bro; non era un libro sacro,d’ac­cordo, ma lo trovai ancora bello e teso, spirituale e marziale. Poi c’era Mishima romanzie­re, gran letterato, ma poco rispet­to al testimone dell’Assoluto. Certo, Mishima soffriva di narci­sismo eroico, c’era in lui una componente sadomaso e molto di quel che lui attribuiva allo spi­rito dell’antico Giappone impe­rial­e proveniva in realtà dalla let­teratura romantica d’occidente e dalle sue letture. Mishima era stato lo scrittore più occidentale del Giappone, era di casa in America, veniva in Italia, amava Baudelaire e d’Annunzio, Keats e Byron, perfino Oscar Wilde. Fa­ceva il cinema, scriveva per il ci­nema e per il teatro moderno, amava i film di gangster, era ami­co di Moravia. E c’era in lui quel­­l’intreccio di vitalismo e deca­dentismo comune agli esteti no­strani. La stessa voluttà del mori­re di d’Annunzio, lo stesso culto della bella morte degli arditi e poi di alcuni fascisti di Salò... Ma il miracolo di Mishima fu proprio quello: ritrovare nella modernità occidentale il cuore antico del suo Giappone, il culto dell’imperatore,la via del samu­rai, il pazzo morire; il nostro pen­siero e azione che diventano in Giappone il crisantemo e la spa­da. Ribelle per amor di Tradizio­ne. Certo, dietro il suicidio non c’è solo il grido disperato e irriso verso lo spirito che muore; c’è anche il gusto del beau geste cla­moroso e c’è soprattutto l’orro­re della vecchiaia, del lento e in­decoroso morire nei giorni, ne­gli anni. Dietro il samurai c’era Dorian Gray. Ma colpisce la sua cerimonia d’addio, vestito di bianco come si addice al lutto in Giappone, e prima il suo conge­do in scrittura. Saluto gli oggetti che vedo per l’ultima volta... Mi siedo a scrivere e so che è l’ulti­ma volta... Poi il pranzo dai geni­tori alla vigilia, la ripetizione fe­dele delle abitudini, come se nulla dovesse accadere. E il gior­no dopo conficcarsi una lama nel ventre e farsi decapitare, do­po aver gridato tra le risa dei sol­dati, l’occhio delle telecamere e il ronzio degli elicotteri, il suo di­scorso eroico caduto nel vuoto. Quell’immagine ti resta con­ficcata dentro, come una spada, capisci che l’unica morale eroi­ca è quella dell’insuccesso, pen­si che il successo arrivi quando il talento di uno si mette al servi­zio della stupidità di molti; diffi­di­delle vittorie e accarezzi la no­biltà delle sconfitte. E leggi Mor­ris e la Yourcenar che a Mishi­ma dedicò uno splendido testo, per accompagnare con giuste letture il suo canto del cigno. Su quegli errori si fondò la vita di al­cuni militanti dell’assoluto, alla ricerca di una gloria sovrumana che coincideva con la morte trionfale, la perdita di sé nel no­me di una perfetta eternità... Per­ciò torno oggi in pellegrinaggio da Mishima e porto un fiore di loto ai suoi 45 anni spezzati, e ai nostri quindici anni spariti con lui.