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 2010  novembre 21 Domenica calendario

IL SUPER WHISKY MADE IN BANGALORE

Al posto delle scogliere affacciate sull’Oceano Atlantico, ci sono le morbide colline del sud dell’India. Invece dei prati punteggiati di erica, c’è una fila di palme. E fin qui è tutta una questione di gusti. I problemi cominciano quando ti accorgi che al posto degli strilli dei gabbiani ci sono i clacson dei camion che percorrono la National Highway 4 diretta a Chennai.

Ci vorrà ancora un po’ di tempo prima che la distilleria della Amrut, alla periferia di Bangalore, diventi un’attrazione turistica come è successo per esempio a quelle di Laphroaig, Lagavulin e Bowmore nelle Ebridi Interne, in Scozia. Ma per quanto riguarda la qualità di ciò che viene prodotto, secondo uno dei massimi esperti mondiali di whisky, il gap è già stato colmato.

L’uomo che ha portato all’attenzione del mondo i distillati di questo piccolo produttore indiano si chiama Jim Murray ed è l’autore di una pubblicazione che fin dal titolo - Whisky Bible - non fa nulla per nascondere le credenziali e la fiducia in sé di questo 53enne inglese del Surrey che ogni anno assaggia circa mille nuove bottiglie di Scotch, Bourbon e Rye. Il primo exploit degli indiani risale alla guida del 2010 quando il Fusion, una delle sei bottiglie di single malt prodotte dalla Amrut, ha conquistato addirittura il terzo posto tra i whisky giudicati migliori al mondo.

Uno status sostanzialmente confermato dalla nuova edizione della "Bibbia", quella del 2011, dove con ben 97 centesimi, solo mezzo punto in meno delle tre etichette al top, il Fusion si è classificato a pari merito con un paio di mostri sacri scozzesi: un Ardbeg invecchiato 10 anni e un’edizione limitata di Glenfiddich maturato per mezzo secolo in botte. Considerato che quest’ultima è una bottiglia da 10mila sterline e che il suo concorrente indiano costa 2mila rupie (il rapporto è 359 a 1) non è difficile immaginare che per i distillatori di Bangalore la soddisfazione sia stata grande.

«Il nostro Fusion - spiega con orgoglio il managing director della Amrut Neelakanta Rao Jagdale - è il frutto di una combinazione di orzi torbati provenienti dalla Scozia e orzi indiani. È una bottiglia in cui non sarebbe stato possibile usare soltanto prodotti locali perché qui in India la torba non esiste. Quindi siamo dovuti ricorrere a qualche piccola contaminazione». Laddove invece la Amrut produce altri single malt non torbati, tutte le materie prime e le lavorazioni sono interamente made in India: l’orzo è coltivato in Rajasthan e Punjab, viene trasformato in malto in uno stabilimento di Delhi e quindi fatto fermentare, distillato e invecchiato a Bangalore.

Tre fasi della lavorazione che non potrebbero essere svolte quasi da nessuna altra parte del Subcontinente se non nella capitale dell’Information technology. Il suo clima (alternanza di stagioni secche e umide con temperature mai estreme grazie a un’altitudine di 900 metri sul livello del mare) si presta insospettabilmente bene alla maturazione dei distillati. Che qui hanno il vantaggio di invecchiare più rapidamente che altrove (in genere per non più di 3 anni) anche se poi chi li produce deve fare i conti con una angel share (la porzione di whisky che evapora prima di poter essere imbottigliata) del 10% contro il 2-3% della Scozia.

Al di là degli aspetti tecnici e climatici, ci sono almeno tre cose che rendono curiosa l’improbabile ascesa di questo produttore: il modo in cui la storia della distilleria, fondata solo un anno dopo l’Indipendenza del 1947, abbia ricalcato passo dopo passo le trasformazioni avvenute in India fino ai giorni nostri; i limiti, un po’ paradossali, impliciti nel fatto di operare nel secondo paese più popoloso del pianeta (che è anche il primo mercato mondiale del whisky); e il fatto che in questi ultimi anni la società di Bangalore sia riuscita a capitalizzare proprio sul suo nanismo.

Ripercorrere le storia della Amrut significa guardare a oltre un sessantennio di India indipendente attraverso il prisma di un bicchiere. Pieno di rectified spirit, una forma molto impura e altamente concentrata di alcool che si beveva negli anni immediatamente successivi all’Indipendenza, quando quello che contavano erano i gradi. Poi di Extra neutral alcohol, una versione ridistillata e aromatizzata della stessa materia prima, capace di imporsi nei decenni successivi. Quindi, a partire dalla fine degli anni 70, di blended brandy, quando i gusti della clientela indiana andavano facendosi mano a mano meno rozzi. Un processo di affinamento che sarebbe proseguito negli anni 80 con la produzione di whisky su larga scala, per culminare poi nel 2000 con la decisione di affacciarsi sul mercato dei single malt che in quegli anni uscivano dal ghetto degli intenditori per diventare dei prodotti di nicchia, ma decisamente alla moda.

Una volta incassata l’approvazione dei clienti del Pot Still, un celebre whisky bar di Glasgow dove le prime bottiglie hanno iniziato a circolare informalmente, nell’agosto del 2004 la Amrut ha lanciato, proprio nella città scozzese, il suo single malt. «Per prima cosa - racconta Jagdale - ci siamo rivolti al mercato internazionale e solo in un secondo momento a quello domestico. Il merito del passaggio, in un certo senso, è stato della globalizzazione: quando le imprese indiane dell’It hanno iniziato a mandare i propri dipendenti in giro per il mondo, alcuni di loro hanno cominciato ad apprezzare i whisky di qualità e a guadagnare abbastanza per poterseli permettere. Oggi i nostri clienti indiani sono loro».

Il risultato è che, con le sue 7mila casse all’anno e un fatturato di oltre 150 milioni di rupie, la distilleria non tiene il passo della domanda interna. Un dato difficile da trascurare, anche alla luce del fatto che l’unico stato dell’India in cui i prodotti di punta della Amrut sono in vendita è quello in cui vengono distillati, ovvero il Karnataka. «Il motivo è che per "esportare" il nostro whisky a Mumbai o Delhi dobbiamo prima ottenere una licenza locale, quindi pagare i dazi d’ingresso e aggiungerci le tasse dello stato di destinazione». Il risultato è che oggi per un produttore indiano di alcolici è più semplice vendere all’estero che all’interno del suo paese. In attesa di trovare un distributore italiano, le bottiglie Amrut già si vendono dagli States a Taiwan; dal Regno Unito all’Australia; dalla Spagna al Giappone.

Questo complicato sistema di balzelli locali che da decenni frena la crescita di tanti business manifatturieri indiani non si è rivelato però una semplice zavorra. «Con le dimensioni ridotte - spiega Jagdale - vengono anche dei piccoli vantaggi. Come quello di doversi ingegnare e poter fare degli esperimenti impiegando quantità contenute, senza grossi rischi. E con la prospettiva, magari, di riuscire a tirare fuori un prodotto davvero speciale». Anche a costo di portare un pezzetto di Scozia tra le palme del Karnataka.