Varie, 23 novembre 2010
Tags : Albert jr. Speer
Speer AlbertJr
• Berlino (Germania) 29 luglio 1934. Architetto. Figlio (e omonimo) dell’architetto preferito di Adolf Hitler • «[...] nato [...] nell’anno in cui il padre veniva nominato architetto-capo del partito nazista, aveva i pantaloni corti quando lui finì davanti ai giudici di Norimberga; e non gli fu mai particolarmente legato, anche se scelse la stessa professione; non ne condivise mai le tendenze artistiche, l’ossessione della grandiosità. Al contrario, Speer junior è uno che professa di sognare città “progressiste”, pensate per l’uomo e per una società aperta, rispettose dell’ambiente e delle libertà individuali. E se anche non fosse così, le colpe dei padri non dovrebbero ricadere sui figli. [...] Albert junior crea gli stadi olimpici di Pechino così come Albert senior creò nel 1936 lo stadio Olimpico di Berlino [...] in Cina, ha [...] realizzato la “Detroit d’Oriente”, la città dell’auto a Changcun. [...] “[...] i confronti con mio padre sono inevitabili, lo so da quando vinsi il primo premio della mia carriera e la giuria sussultò nel vedere la firma sul progetto: ma come, dissero, Albert Speer? Non è nella prigione di Spandau?”. Era lì, infatti, Albert senior, condannato a 20 anni. Ma non a morte, come Hermann Göring, e non all’ergastolo, come Rudolf Hess, perché considerato solo un esecutore indiretto, un “complice burocratico” delle atrocità naziste. Tornato in libertà, il vecchio Speer morì poi a Londra, il 1˚ settembre 1981, anniversario dell’inizio della seconda guerra mondiale. Lasciando dietro di sé un ultimo enigma: nel momento della morte, aveva al fianco una donna giovane, l’amante per la quale aveva abbandonato la moglie che l’aveva atteso anche nel tempo della prigionia. A lei, la moglie, non aveva riservato la stessa disperata fedeltà dimostrata nell’aprile 1945 al suo Führer: che Speer, rischiando la pelle su un piccolo aereo, era tornato a trovare nel bunker, in una Berlino nibelungica in fiamme. Era sempre stato il suo prediletto, del resto. L’unico del quale, disse, “Hitler avrebbe potuto diventare amico”: fino al sospetto dell’innamoramento omosessuale. Tutto questo, si dev’essere trovato Albert junior sulle spalle, per una vita. [...]» (Luigi Offeddu, “Corriere della Sera” 13/8/2007) • «[...] ha [...] costruito, oltre che in mezza Germania e in particolare a Francoforte, in tutto il mondo: da ministeri e quartieri diplomatici in Arabia Saudita a centri per conferenze in Nigeria [...] Ma quello che lo studio Albert Speer &Partner è riuscito a tirar su intorno a Shanghai in 24 mesi esatti ha davvero dell’incredibile. “L’operazione a Shanghai è stata la più grande sfida di tutta la mia carriera”, confida l’architetto. Che [...] si è trovato a costruire praticamente dal nulla un’intera città-satellite con tanto di palazzine e ristoranti, ospedali, alberghi e una chiesa. Il risultato si chiama New Town Anting e dista 30 chilometri dalla “vera” Shanghai. Certo, oltre alla fabbrica della Volkswagen, coi suoi 20 mila dipendenti, Speer aveva come punto di riferimento la vecchia cittadina di Anting: “Il classico casino architettonico in cemento e per giunta nello stile dei casermoni sovietici” [...]» (Stefano Vastano, “L’espresso” 12/1/2006) • «Quando nel 2001 il presidente Hu Jintao gli ha chiesto di riprogettare la Pechino olimpica, trasformandola nel simbolo planetario della tumultuosa rinascita cinese, Albert Speer jr ha dimenticato per un istante la balbuzie che lo sorprende fin da bambino quando deve fare i conti con l’ingombrante figura del padre. “Chi ha mai avuto la possibilità nella sua vita di pianificare una città che ha più di tremila anni? Berlino, in confronto non è niente”. Così, carico di entusiasmo, si è piegato sul tavolo da disegno per dare forma all’idea che ha accompagnato, forse anche solo inconsciamente, tutta la sua vita. Un mostro (un gioiello?) pensato secondo le stesse linee guida che nel 1936, due anni dopo la sua nascita, avevano spinto Albert Speer, l’Architetto del Diavolo, a creare la Berlino olimpica del Fuhrer e poi a immaginare l’incompiuta Grande Capitale dell’Impero Ariano. Una Beijing tedesca ante litteram. Ma nella famiglia Speer il destino ha bussato due volte. Da un totalitarismo all’altro, dal nero al rosso, in un cortocircuito paradossale che lascia stupefatti, la storia si ripete secondo simmetrie bizzarre. Il cuore dell’aggressivo progetto di Albert Speer padre per la capitale globale, prevedeva un’asse da Nord a Sud che tagliasse la città per sedici chilometri e, come emblema architettonico, una stazione, cupa, gotica, ma di respiro imperiale. Albert Speer junior ha sconvolto Pechino costruendo un’asse da Nord a Sud di venticinque chilometri che scivola dal villaggio olimpico alla Città Proibita. Senza farsi mancare, naturalmente, una stazione monumentale. Un intervento possibile solo con un regime totalitario. Lo stesso senso di onnipotenza, di virilità, sviluppato attorno a una elegante strada maestra che funziona bene sia per le parate, sia, teorizzava Hitler, per i carrarmati quando c’è aria di rivolta. “Basta con questa storia dei regimi, non potevo dire di no alla Cina”, si è lamentato Speer con l’Art Kunst Magazine e col Berliner Tagespost. “Solo in Europa si ritiene che non sia giusto lavorare per un regime. Ma io interpreto la mia professione come quella di un piccolo fornitore di servizi tedesco. E non me ne frega niente di certe considerazioni sulla mia famiglia. [...] Non sono un archistar, non faccio propaganda, non mi preoccupo di monumenti simbolici, ma sogno e realizzo città evolute da un punto di vista della sostenibilità ambientale. I cinesi rispettano l’ambiente molto più di quanto si creda, sono dieci anni avanti ai russi. La Cina è una dittatura, ma non una dittatura militare, perciò mi metto al loro servizio”, chiosa Speer, i cui progetti più significativi sono stati realizzati in Cina, Arabia Saudita, Nigeria e Azerbaigian. “Vengo da una famiglia di architetti, anche mio nonno lo era, e alle elementari disegnare era l’unico modo che avevo per non balbettare più” [...]» (Andrea Malaguti, “La Stampa” 7/8/2008).