AAVV, La Stampa 23/11/2010, pagina 14, 23 novembre 2010
“Oh mio Dio, sparano al presidente Kennedy” - Il Presidente John Fitzgerald Kennedy fu assassinato a Dallas, in Texas, il 22 novembre 1963 alle 12:30, mentre attraversava la città a bordo di una limousine scoperta
“Oh mio Dio, sparano al presidente Kennedy” - Il Presidente John Fitzgerald Kennedy fu assassinato a Dallas, in Texas, il 22 novembre 1963 alle 12:30, mentre attraversava la città a bordo di una limousine scoperta. La commissione Warren, dopo dieci mesi di d’inchiesta (nel ‘63-‘64), e le successive indagini governative esclusero l’ipotesi del complotto, riconoscendo come unico colpevole Lee Harvey Oswald. Le conclusioni restano però controverse, come testimoniano tutti i sondaggi d’opinione condotti negli ultimi quarant’anni: quasi l’80 per cento degli americani è convinto che la verità sia ben diversa dai dossier ufficiali. Nel ‘91, il regista Oliver Stone ha girato il film «Jfk», ipotizzando il coinvolgimento della mafia e dei servizi segreti deviati. *** Lee Harvey Oswald è considerato l’esecutore materiale dell’assassinio di Kennedy dalle tre inchieste ufficiali dell’Fbi, della Commissione Warren e dello United States House Select Committee on Assassinations. Di simpatie castriste e ritenuto da molti uno psicolabile, si dichiarò innocente, ma fu ucciso due giorni dopo l’attentato da Jack Ruby. *** Quando Lee Harvey Oswald esplode il primo colpo l’agente Jack Ready pensa a un fuoco d’artificio, è il veterano Clint Hill il primo ad accorgersi di quanto è avvenuto esclamando «Oh, my God!» e la rabbia degli 007 si sprigiona quando arrivando al Parkland Hospital si accorgono che nessuno li sta ad aspettare. A raccontare l’assassinio di John Fitzgerald Kennedy attraverso la testimonianze dei quaranta agenti della sua scorta è uno di loro, Gerald Blaine, nel libro «The Kennedy Detail» reso possibile dalla scelta collettiva degli agenti del «Secret Service» di rompere il silenzio. A spiegare il perché è proprio Clint Hill, che nella carovana di Dallas era aggrappato alla parte posteriore della limousine presidenziale, definendo Blaine «una persona di indubbia onestà» e prendendo le distanze da «scrittori e registi che si basano sulle opinioni anziché sui fatti per contestare le conclusione della Commissione Warner» che nel 1964 pubblicò il primo rapporto sull’omicidio. «Siamo noi i testimoni di quanto avvenne e ricordare quei fatti può servire a non farli ripetere» aggiunge Hill, ammonendo sul rischio che un nuovo omicidio presidenziale «sarebbe una tragedia nazionale». Ecco dunque cosa avvenne quel 22 novembre di 47 anni fa, quando la carovana di tre auto guidata dalla Ford bianca con a bordo l’agente Win Lawson si mette in marcia per portare John Kennedy al Dallas Trade Mart dove lo aspettano 2600 persone in festa. Le misure di sicurezza sono quelle di sempre: studiate a memoria dagli agenti che lo seguono ovunque ma che, come scrive Blaine, non possono contare «né sugli auricolari né sulle banche dati di oggi ma solo sullo spirito di squadra di uomini che non avevano alcuna fede politica ma solo la volontà di difendere il presidente». Le macchine sono tre. Avanti la Ford bianca con Lawson e lo sceriffo di Dallas, dietro la limo presidenziale con Kennedy e la moglie guidata da Bill Greer ed a fianco Roy Kellerman. E per ultima la convertibile con a bordo quattro agenti, due collaboratoti di Kennedy e un fucile di precisione AR-15. Ma le maggiori responsabilità ricadono sui quattro agenti che procedono a piedi, a fianco della terza auto: Clint Hill e Tim McIntyre sulla sinistra, Jack Ready e Paul Landis sulla destra. È proprio Landis, un attimo prima della tragedia, a far notare a Ready la «tanta gente sui tetti delle case» a conferma che la popolarità di Kennedy è arrivata anche nella roccaforte dei repubblicani in Texas. Nello stesso istante Emory Roberts, a bordo della terza auto, si dice soddisfatto per «la gestione della carovana» da parte degli agenti, inclusi i motociclisti che procedono sempre in linea con le gomme della limo presidenziale. Ma è proprio in quell’attimo che Osvald esplode il primo colpo. Ad accorgersene è Jack Ready ma pensa ad un «fuoco d’artificio» e lo dice ad alta voce. Clint Hill, fisicamente attaccato alla limo, guarda d’istinto il presidente mentre dice «mi hanno colpito» e grida «Oh, mio Dio» mentre il governatore del Texas, John Connally, trema di paura: «Ci uccideranno tutti». L’attentatore esplode il secondo colpo, questa volta il suono è più forte, vicino. L’agente Roy Kellerman, seduto a fianco dell’autista della limo, grida: «Ci hanno colpito, via di qui». Win Lawson decide di dirigere la carovana d’auto verso «l’ospedale più vicino» ma nessuno sa bene dove sia mentre arriva il terzo colpo, centrando la testa di John Kennedy. La First Lady Jackie grida in faccia agli agenti: «Lo hanno ucciso, è stato colpito in testa». Clint Hill è oramai sopra la limo, incitando l’autista a correre «all’ospedale». Sono passati appena sei secondi dal primo colpo, gli uomini della scorta si guardano intorno, George Hickey sulla convertibile imbraccia il fucile Ar-15 ma oramai è troppo tardi per reagire. La priorità è salvare la vita del presidente degli Stati Uniti. La corsa verso l’ospedale di Parkland dura sei minuti, durante i quali la scorta chiama per radio la polizia di Dallas avvertendoli di cosa era avvenuto, ma quando il corteo arriva davanti all’entrata del pronto soccorso non c’è nessuno ad accoglierli. Clint Hill e gli altri si gettano sulla ricerca di «almeno due barelle» ma a Roy Kellerman basta gettare un’occhiata dentro la limo per rendersi conto che Kennedy è morto: materia ossea e frammenti di cervello sono ovunque. Il pensiero va così subito sulla nuova missione, ovvero difendere il vicepresidente Lyndon B. Johnson che è il nuovo «comandante in capo». Anche se in quel momento nessuno ancora sa bene dove si trovi. Dal racconto di Blaine traspare l’amarezza per lo smacco subito come anche il plauso ad un’America che «protegge oggi i candidati presidenziali con risorse che noi allora non avevamo per difendere la Casa Bianca». Quasi a dire che la tragedia di John Kennedy è servita a rendere la presidenza più sicura. MAURIZIO MOLINARI *** Ad arricchire la copiosa produzione di libri, memoriali e confessioni che alimentano i più variegati retroscena complottisti sull’assassinio di John Fitzgerald Kennedy arriva il libro di Judyth Vary Baker, una donna che afferma di essere stata l’amante di Lee Harvey Oswald. «Lee and Me» è il titolo del volume nel quale l’autrice racconta «come ho conosciuto, amato e perso» l’uomo che uccise Kennedy. La tesi di Baker è che tutto nacque dalla sua passione per la lotta ai tumori perché la portò a conoscere Alton Ochsner, un medico di New Orleans coinvolto in un complotto della Cia per uccidere Fidel Castro. Fu proprio grazie a Ochsner che la donna, nella primavera del 1963, incontrò Oswald che - secondo il libro - sarebbe stato a sua volta coinvolto nel tentativo di eliminare il leader cubano. Fra i due iniziò una focosa relazione sentimentale che portò Oswald a confessarle che lavorava per l’intelligence americana con l’intento di infiltrarsi a Cuba per riuscire a far arrivare ad un medico dell’Avana il medicinale-killer preparato da Ochsner. Fu proprio allora però che la donna racconta di essersi accorta che il piano passava per l’uccisione di alcuni pazienti-cavia sui quali il medicinale veniva testato, sviluppando una forte ostilità per il dottore di New Orleans che coincise anche con difficoltà nella relazione con Oswald, che nel frattempo era andato in Messico convincendosi che il complotto anti-Fidel in realtà celava l’intenzione di assassinare il presidente Kennedy. La tesi di Baker è che in almeno un’occasione Oswald avrebbe «salvato la vita a Kennedy» facendo fallire un agguato a Chicago mentre a Dallas «i fatti andarono differentemente» e Oswald venne arrestato subito dopo l’omicidio. La tesi dell’autrice è che l’ex amante sarebbe stato usato come capro espiatorio: «Gli negarono un avvocato, lo tennero in isolamento e poco dopo venne ucciso da Jack Ruby in diretta televisiva, davanti ai miei occhi». A suo avviso Jack Ruby sarebbe poi morto in seguito in carcere a seguito di una «misteriosa sostanza» che gli sarebbe stata iniettata da un medico, a conferma dell’esistenza di un complotto di ampie dimensioni. [M. MOL.]