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 2010  novembre 23 Martedì calendario

DIARI DEL DUCE, LA SAGA INFINITA

La caccia ai diari del Duce è una saga nazionale che nasce praticamente il 25 luglio 1943, con la seduta del Gran Consiglio che decreta la fine del regime fascista. E che continua fino a oggi, quotidianamente e sotterraneamente perenne, pubblica e clamorosa nelle ricorrenti puntate capaci sempre di conquistare l’attenzione del pubblico. Il caso scoppia nel 1957, riesplode dieci anni dopo nel 1967, si intravede come incombente nel 1983 (salvo restare in sordina per la malaugurante concomitanza dei diari attribuiti a Hitler e rovinosamente sbugiardati), torna alla grande nel 1994 dopo sette anni di laboriosa gestazione, arriva all’apoteosi con l’intervento di un personaggio controverso come Dell’Utri nel 2007, e da lì occupa la scena fino a questi giorni, con la decisione della Bompiani di pubblicare la serie di agende ritrovate, «vere o presunte» che siano. Ovvero, se non azzeriamo la memoria nel vortice quotidiano dell’informazione, questa vicenda accompagna le cronache italiane per tutta la prima e anche la seconda Repubblica.
Quando poi è davvero apparsa qualche pagina dei presunti diari — nelle molte versioni, talora sovrapposte — si sono scatenate le letture e le interpretazioni. Su un binario doppio e costante: edulcorazione della figura del Duce, oppure assoluta banalità di quel che vi è scritto; inattendibilità per giudizi troppo distaccati dalla realtà del regime, oppure approfondimento di aspetti finora solo intuiti.
Anche questo riguarda l’eventuale dibattito conseguente alla «messa in piazza» di un primo testo. E non abbiamo le competenze per entrarci (anche se non possiamo non notare l’intrinseca contraddittorietà di alcuni giudizi: insignificante e scontato, o sconcertante e giustificativo?). Ci basta ricostruire un’appassionante opera collettiva che in Italia si va scrivendo da sessant’anni.
Fra le infinite — e contraddittorie — pagine sugli eventuali lasciti documentari di Mussolini (diari, memoriali, carteggi, preferibilmente con Winston Churchill) c’è un aspetto generalmente trascurato: a innescare la caccia concorse assai una competizione editoriale dai marcati accenti personalistici, quella fra Arnoldo Mondadori e Angelo Rizzoli. Entrambi in gara per accaparrarsi l’ultima «verità» su un tema che appassionava instancabilmente i lettori e anche, magari, per assicurarsi prove inconfutabili sugli intrecci col regime durante il Ventennio del concorrente rivale.
Nati a distanza di due giorni l’uno dall’altro (e moriranno entrambi nel giro di nove mesi), Angelo Rizzoli, il «cumenda», e Arnoldo Mondadori ebbero due vite di parallelo successo e di precoci e reciproche antipatie. Il secondo si rifiutava persino di fare il nome del primo. Lo chiamava «R», fingeva di non tenerne conto ma, in fondo, lo temeva, perché l’altro era più strafottente e più ricco. Partiti dalla miseria entrambi, socialisti da giovani, una volta diventati «padroni» importanti, potenti e milionari, nel Ventennio avevano intimamente intrecciato la loro storia col regime, ascoltando i suggerimenti del Duce, manovrando nell’editoria d’intesa con lui e con i gerarchi, addirittura associandosi, anche se per soli sei mesi, in un’impresa che a Mussolini stette per qualche tempo a cuore: «Omnibus», lo splendido settimanale — il primo rotocalco italiano — inventato da Leo Longanesi. Alla stampa popolare Rizzoli era arrivato per primo, ma Mondadori lo seguì a ruota. E quando, nel dopoguerra, il regime caduto diventò un motore di grandi tirature — spiato dall’interno, meglio ancora se raccontato con diari sensazionali e memorie confidenziali — i due si fecero una concorrenza spietata per conquistare gli scoop migliori. Anche perché ognuno cercava le prove della compromissione col regime dell’altro.
Nota Renzo De Felice in Rosso e nero: «La Rizzoli, ma soprattutto la Mondadori, nel dopoguerra sono state il grande nodo ferroviario dei traffici editoriali e politici che si sono svolti intorno alle carte di Mussolini. Arnoldo è stato un grandissimo capostazione. Fu la Mondadori che, prima di pubblicarli, studiò e smascherò i falsi delle Panvini, le famose Rosetta Panvini Rosati e sua figlia Amalia detta Mimì». E Pasquale Chessa ha precisato, in un articolo sull’«Unità» del 2007: «C’è stata una vulgata "anti-antifascista", speculare alla cosiddetta "egemonia della sinistra" nella storiografia, che ha dominato la narrazione nazionalpopolare del fascismo e del suo tempo. Una specie di patto di Yalta della memoria collettiva. Per dire: da una parte Einaudi e gli Editori Riuniti e dall’altra "Oggi" e poi "Gente". Attraverso questa divulgazione di massa, il Paese ha saputo ritrovare un ambito — una valvola di sfogo — nel quale anche la memoria dei vinti potesse trovare ascolto».
Nella fortuna di quello che può, a ragione, essere definito un «genere» concorrono, del resto, anche altre ragioni. Una si potrebbe definire «sistema Corona», facendo riferimento all’uso dell’immagine emerso con le inchieste recenti che hanno coinvolto diverse agenzie fotografiche. Una caccia a documenti scottanti utile alla pubblicazione, ma anche — in prima battuta — a guadagnarsi obblighi, riconoscenza, contropartite più o meno confessabili se il materiale viene imboscato avanti di arrivare sulle pagine. Solo che, invece delle foto, all’epoca il traffico riguardava documenti. La classe dirigente del dopoguerra non aveva esitato a cooptare, in tutti gli schieramenti, personaggi che avevano avuto a che fare col regime nelle più diverse maniere: certificare compromissioni e legami diventati «sconvenienti» poteva rappresentare un utilissimo strumento di pressione.
C’è poi, potente, la fascinazione del male. Robert Harris con I diari di Hitler (Mondadori) ha costruito un libro notevole riguardo alla «presa sull’immaginario collettivo in tutto il mondo» che la figura del Führer continua ad avere. Ora spiega: «I diari hanno sempre un grande potere d’attrazione perché offrono l’opportunità di vedere da vicino, dal loro lato più personale, le celebrità. Nel caso dei dittatori, poi, si tratta di un osservatorio privilegiato sul male, sul demonio. I falsi diari di Hitler dettero la misura di quanto fosse forte questo appetito pubblico». Il ragionamento vale anche nel caso del Duce e del fascismo.
Enrico Mannucci