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 2010  novembre 23 Martedì calendario

PADOVA, CARPI: LE NUOVE PRATO. BAR E BORSE, PICCOLI CINESI CRESCONO

Non è difficile incontrare chi si lascia scappare che «qui da noi ormai è una nuova Prato». Artigiani e commercianti delle province emiliane e venete sono sul chi vive. Sentono odore di invasione cinese e non ci stanno. I dati, che dovrebbero essere oggettivi, non confermano le loro sensazioni ma neppure le smentiscono. Perché se è vero che nel manifatturiero e nei servizi la presenza di operatori cinesi nelle regioni padane è in costante aumento, fortunatamente le dimensioni (e i problemi) di Prato per ora restano lontani.
Campanello d’allarme — Secondo le ultime rilevazioni Unioncamere (terzo trimestre 2010) le manifatture di proprietà cinese sono circa 750 a Reggio Emilia, 585 a Padova, 560 a Modena. E ancora, ben 502 nella piccola Mantova e 437 nell’altrettanto piccola Rovigo. I numeri di Prato (3.493) e anche di Firenze (2.347) non sono dunque paragonabili ma non per questo commercianti e artigiani veneto-emiliani che suonano l’allarme hanno torto. Anche perché i dati parlano di ditte individuali che agiscono alla luce del sole e sono registrate nelle statistiche ufficiali, nessuno può formulare nemmeno una stima su quanti siano invece i laboratori clandestini. Di sicuro nelle province attorno al Po o anche in Lombardia i ritrovamenti da parte delle forze dell’ordine di «fabbriche fantasma» non fanno più notizia. Finiscono nelle brevi. E nei mesi scorsi la Confartigianato di Treviso per richiamare l’attenzione ha organizzato un incontro pubblico con la Guardia di finanza. Obiettivo: fare il punto sulla strategia di contenimento delle illegalità nella produzione di abbigliamento, scarpe e divani. In Brianza poi, la capitale del mobile made in Italy, a fine settembre si è verificata a Muggiò l’esplosione di un laboratorio cinese.
Avanzata silenziosa — L’avanzata asiatica nel manifatturiero padano è lenta e silenziosa. Fanno molto più scalpore le acquisizioni di bar e osterie (alcuni di nome) comprati con trattative lampo e non è un caso che Marco Paolini abbia iniziato a girare un film sui rapporti tra cinesi e veneti ambientato in un’osteria venduta. Sono passati di mano il bar Franchin di Rovigo, il ristorante Dai Nodari di Vicenza, il bar Cavour di Reggio Emilia e il bar Pilar di piazza dei Signori a Padova. Sempre nella città del Santo altri esercizi nelle vicinanze del centro storico sono stati acquistati in contanti per 6-700 mila euro e, dopo un periodo di gestione diretta, i cinesi hanno assunto camerieri e conduttori italiani per evitare di perdere clienti. Secondo Ferdinando Zilio, della Confcommercio di Padova, in tutto il Veneto saranno 2 mila i bar, ristoranti e osterie passati di mano.
La compravendita è molto meno frequente nell’industria. La tendenza degli operatori cinesi in questo caso è quella di articolare la loro presenza lungo l’intera filiera, dal capannone o sottoscala che produce calze e vestiti fino alla bancarella che li vende nei mercati di paese. Oppure di aprire in posizioni strategiche dei Centri Ingrosso, come nel caso di Padova, dove c’è persino una gioielleria e si può comprare di tutto, dalla frutta e verdura all’orsetto di peluche. Il guaio è che molti di quei prodotti, provenienti nelle fabbriche tutte intorno, portano l’etichetta made in Italy e vengono venduti in gran quantità a sloveni e austriaci. «Lì dentro non si sa nemmeno cosa sia una fattura e le regole, tutte le regole, vengono continuamente calpestate. Purtroppo in città c’è una sottovalutazione di quanto sta avvenendo» tuona Zilio.
«Devo dire che i numeri dell’Unioncamere riferiti a Mantova sono sorprendenti, questa penetrazione nel manifatturiero ancora sfugge ai nostri occhi» ammette Massimo Salvarani, direttore della Cna locale. È vero che anche nel Mantovano una fabbrichetta clandestina al mese salta fuori e la scena è sempre la stessa: un grande locale dove si cuce, si mangia e si dorme. Le aree a maggiore concentrazione di ditte cinesi sono segnalate attorno al distretto della calza di Castelgoffredo o nella maglieria vicino ai comuni di Poggio Rusco e Quistello. Non è chiaro quanto e come i cinesi lavorino per grandi aziende italiane e se abbiano sostituito o meno i vecchi contoterzisti della zona. Se è così, comunque, è successo tutto nel silenzio. Giorno dopo giorno. Anche a Rovigo è l’abbigliamento il cuore del nuovo manifatturiero cinese. Come a Mantova non si tratta però di un insediamento diffuso, non ci sono Chinatown o grandi centri di smistamento ma un lento ingresso nella subfornitura. Nella provincia di Modena è il distretto di Carpi a catalizzare l’attenzione delle nuove ditte cinesi, quelle regolari e quello no. Qui la Cna locale si azzarda a stimare che a fronte di un’azienda emersa ce ne siano almeno quattro sommerse. Per avere dati precisi, suggeriscono, forse occorrerebbe analizzare i consumi notturni di energia elettrica visto che le manifatture fantasma lavorano anche quando gli altri dormono. Modena però offre molte altre occasioni e così ditte cinesi sono presenti nella ceramica e addirittura nel biomedicale. Aveva fatto scalpore qualche settimana fa la presenza a una fiera specializzata di un’impresa cinese della meccanica per ceramiche con tanto di brand «Modena Machinery».
A Reggio Emilia, città multietnica ormai per eccellenza, attorno alla stazione centrale una piccola Chinatown esiste con tanto di bar italiani conquistati, mentre gli insediamenti nel manifatturiero sono più nella parte a sud della provincia attorno ai comuni di Correggio, Brescello, Ca’ del Bosco. I laboratori spesso sono ospitati in case coloniche e anche in questo caso è il distretto della maglieria di Carpi a esercitare attrazione.
Le reazioni —
In prima fila a denunciare i rischi dell’invasione cinese sono le organizzazioni dei Piccoli. A Firenze lo scorso anno è stata la Cna a mobilitare i propri artigiani davanti al rischio che la pelletteria locale passasse armi e bagagli sotto i cinesi. L’ufficio studi nazionale della Confartigianato ha elaborato un’analisi sulla presenza in Italia, sulle rimesse di denaro in Cina e sulle caratteristiche socioculturali delle loro comunità. Risultato: ogni cinese in Italia ne mantiene 4 in patria e nonostante la Grande crisi l’attività di money transfer nel 2009 continuava ad aumentare a tassi superiori al 20% mentre quella degli immigrati di altri Paesi faceva segnare per la prima volta una contrazione. Le comunità cinesi sono anche quelle che meno utilizzano servizi pubblici e privati per l’inserimento nel mercato del lavoro, non sono minimamente interessate al riconoscimento del titolo di studio conseguito in patria e sono anche le meno portate a utilizzare l’italiano sul luogo di lavoro. Finora allarmi e denunce sono rimaste nell’ambito associativo e non si segnalano episodi di intolleranza. Qualche tempo fa aveva però colpito l’affermazione del governatore veneto Luca Zaia, «in Veneto non permetterò che nascano Chinatown», e sempre nel Nordest la Lega è stata molto critica verso l’apertura nei dintorni di Manzano (distretto della sedia) di un centro ingrosso cinese. Va in controtendenza la Caritas che polemizza con chi parla di pericolo giallo e concorrenza sleale. Critica esplicitamente Roberto Saviano per quelle che giudica esagerazioni contenute in Gomorra, sostiene che la permanenza dei cinesi in Italia è a tempo determinato e di conseguenza molti di loro non imparano la lingua di un Paese nel quale non resteranno. Analizza, infine, il senso di timore degli italiani verso i progressi economici cinesi in un momento di recessione in Italia e arriva a parlare di «un crescendo di notizie diffamatorie verso la comunità cinese che si traducono in tensione sociale e anche in pesanti atti di razzismo».
Legalità — È normale che ci siano punti di vista diversi. E forse non ha nemmeno senso dividersi tra chi pronostica "nuove Prato" e chi invita gli italiani a lavorare per l’integrazione. Ivan Malavasi, presidente della Cna e imprenditore del Reggiano, non nasconde le preoccupazione dei suoi associati. «Ho l’impressione che il patrimonio di competenze che sta passando di mano noi non lo ricomporremo più. Per certi versi i cinesi ci sostituiscono e noi siamo portati a mollare». Che fare, dunque, per non vivere nell’incubo dell’invasione gialla? «Dobbiamo batterci per un modello economico di assoluta trasparenza e quindi massimo sostegno a tutte le iniziative per il ripristino della legalità. Non ci possiamo permettere asimmetrie». Sulla stessa lunghezza è Raffaello Vignali, deputato del Pdl e consigliere per le Pmi del ministro Paolo Romani. «Non dobbiamo far passare l’idea che a da noi, a Prato o altrove, si possa far tutto. Dobbiamo quindi chiedere di intensificare i controlli a tutti i livelli. Perché francamente non è possibile che a Roma in via Veneto, proprio sotto il ministero dello Sviluppo economico, a una certa ora della sera i marciapiedi diventino un unico tappeto di merci contraffatte». E in questo caso la beffa precede il danno.
Dario Di Vico