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 2010  novembre 23 Martedì calendario

PROFESSIONE AVVOCATO: LE REGOLE PER RIPARTIRE

Nel Paese degli avvocati, sono 220 mila contro i 45 mila francesi e i 130 mila tedeschi, è singolare che i cittadini si sentano giorno dopo giorno sempre più indifesi al momento di far valere i loro diritti. Non si tratta di questioni che riguardano una professione. O non solo. Ma siamo certi che, dietro ordinamenti inadeguati, il proliferare di norme e regolamenti, non si nasconda una litigiosità in aumento, di una giustizia che, lenta di per sé, tende a essere sempre meno l’affermazione di un diritto e sempre più una giungla inestricabile?
Oggi il Senato dovrebbe dare un primo via libera alla riforma dell’avvocatura. Una revisione che nella stesura arrivata a Palazzo Madama ha visto il favore di quasi tutte le componenti professionali, dal Consiglio nazionale forense all’Organismo unitario. Abolito quello che viene chiamato il «patto di quota lite», vale a dire quel meccanismo che permetteva di legare i compensi al risultato ottenuto, nelle settimane scorse si è molto discusso del ritorno alle tariffe minime che erano state abolite dalle liberalizzazioni volute dall’allora ministro Bersani con l’intento di abbassare i prezzi. Tariffe minime difese dalla categoria per impedire che una mera concorrenza al ribasso di costi abbatta la qualità, avversate dai giovani avvocati perché viste come ostacolo al loro ingresso nel mondo del lavoro. Altrettanta passione ha provocato un’altra norma, quella sulla continuità professionale. Vale a dire, la giustezza o meno di stabilire un reddito minimo in base al quale indicare la permanenza nella professione pena l’esclusione di quanti pur fregiandosi del titolo di fatto non la esercitano. Una regola che potrebbe mettere a rischio l’iscrizione all’albo di qualcosa come 50 mila professionisti. È chiaro che la riforma è ben più ampia, ma in entrambi i due casi riportati è evidente la finalità: una razionalizzazione del settore. Tradotto in termini più crudi, una scrematura del numero di avvocati per far emergere intanto quella che è una disoccupazione mascherata, come risulta evidente dalle cifre così diverse rispetto ad altri Paesi europei. Ma anche per affermare un ragionamento, o una constatazione, è cioè che avere un maggior numero di avvocati non ha significato affatto sinora disporre di migliori servizi, maggiore qualità e a minor prezzo per i cittadini. E allora se si vuole modernizzare un settore, se si vogliono rompere incrostazioni corporative e avere il ruolo che spetta a una professione così importante, è necessario essere estremamente franchi e leali, anche e soprattutto nei confronti dei giovani che aspirano a farne parte. Non sempre gli avvocati, ma si potrebbe dire lo stesso per molte professioni (giornalisti compresi), si sono fatti sentire quando le università sfornavano a migliaia (fino a 25 mila l’anno) aspiranti toghe. Sicuramente le regole sono importanti e bene hanno fatto quanti nella categoria si sono impegnati in questi anni per modernizzarla e arrivare alla riforma. Ma altrettanto importanti sono le persone che andranno a ricoprire quei ruoli. Siamo certi che l’impianto della nuova legge crei le basi, ad esempio, per un accesso regolato e funzionale, che miri alla qualità, che guardi al futuro? Certo, si dovrebbe iniziare a parlare di numero programmato, di numero chiuso, usando concetti tutt’altro che popolari e che creano avversione e non simpatia. Si dovrebbe affermare con forza il criterio del merito come unico metro di giudizio e magari porsi il problema di indicare strade diverse, di offrire alternative a quanti volessero avvicinarsi alla professione. Dimostrando così concretamente e realmente la volontà di apertura e non chiusura alla società.
Daniele Manca