Ugo Magri, La Stampa 23/11/2010, 23 novembre 2010
Siamo passati come fulmini dall’euforia della «spallata» imminente, col Cavaliere dato già per morto, alla sensazione che il suo governo tirerà avanti, sia pure tra mille stenti e non per tanto tempo ancora
Siamo passati come fulmini dall’euforia della «spallata» imminente, col Cavaliere dato già per morto, alla sensazione che il suo governo tirerà avanti, sia pure tra mille stenti e non per tanto tempo ancora. In soli dieci giorni la percezione della crisi si è rovesciata, qualcosa dunque è successo. In parte dietro le quinte, il resto è sotto gli occhi di tutti. Probabile che Fini abbia sbagliato qualche sua mossa; che il premier viceversa sia stato cinico e abile. Possibile, anzi sicurissimo, che certi deputati e senatori siano disposti a qualunque giravolta pur di restare «onorevoli». Alla Camera si scommette che, il giorno della fiducia, Berlusconi ne avrà ramazzati abbastanza. Che vergogna, le compravendite. Ma nessuna campagna acquisti può far centro se l’aria tira dalla parte sbagliata. Nel caso di Berlusconi, invece, soffia per lui. Più che di vento trattasi di bufera: la crisi finanziaria abbattutasi su Portogallo e Irlanda, con l’Europa impegnata nei soccorsi, non aiuta chi vorrebbe cambiare premier proprio adesso. Metti caso che la speculazione internazionale si ricordi di noi... La «sfiga» di Fini consiste nella parola «dimissioni» pronunciata nel giorno forse meno adatto per tentare un governo tecnico, mentre lo «spread» dei titoli irlandesi supera i livelli di guardia, quando inglesi e tedeschi cominciano a temere che qualche loro banca risulti inguaiata. Il primo scacco alla crisi, vista col senno di poi, lo dà Tremonti. Quasi nelle stesse ore in cui il presidente della Camera lancia l’affondo a Perugia, supplicando Berlusconi di levare il disturbo, il ministro dell’Economia sale riservatamente al Colle e mette in guardia Napolitano sui rischi di una crisi politica al buio, senza avere nemmeno approvato la legge di stabilità. Fa dell’altro, Tremonti: a costo di sembrare cedevole, accoglie qualche richiesta finiana. Dei 7 miliardi necessari, 5 ne spuntano dal suo cilindro. Cosicché non resta motivo per bloccare la Finanziaria. E Napolitano, più presbite di tutti, batte senza indugio sul tasto della responsabilità: prima mettete al sicuro il portafogli degli italiani, intima ai duellanti, poi regolate pure i conti. Col risultato di congelare la crisi fino al 14 dicembre, come in un fermo-immagine. L’altro momento-clou cade sabato 12 novembre, sull’Airbus 319 che riporta in Italia Berlusconi da Seul, quasi una fuga dal proscenio del G20. Il Cavaliere rimugina su quanto gli ha riferito Bossi dell’incontro con Fini il giorno prima, «mai più Silvio a Palazzo Chigi» avrebbe detto Gianfranco, quasi un «de profundis»... Raccontano i fedelissimi che in volo scatta la molla, con Berlusconi che d’improvviso s’illumina a 220 volts esclamando: «Quello si è sbilanciato troppo, ora torno e lo sistemo io». Sarà andata proprio così? Fatto sta che l’indomani guasta la domenica a Letta e Cicchitto, Alfano e il portavoce Bonaiuti sequestrandoli fino a sera (più Gasparri e La Russa tenuti ore al telefono). E dal «brain storm» collettivo emerge la svolta che si riassume nel motto: «O la fiducia o le elezioni». Per il finiano Della Vedova, Berlusconi sceglie di ficcare la testa sotto la sabbia «rifiutando di prendere atto che, primo, il Pdl è in pezzi; secondo, lui stesso ha seri problemi di immagine; terzo, il governo ha smarrito ogni spinta propulsiva; quarto, Fini gli ha lanciato una proposta per chiudere una fase e aprirne un’altra...». Ma il Cavaliere è sedotto da un’altra idea, la cui paternità in molti fanno risalire alla «mente sottile» Quagliariello. Consiste nel giocare d’anticipo, la fiducia prima al Senato anziché alla Camera poiché a Montecitorio la sconfitta sarebbe garantita laddove a Palazzo Madama i «pontieri» di Augello gli hanno fatto un ottimo lavoro, lì la maggioranza tiene anzi addirittura si allarga. E se votano prima i senatori, calcola il Cavaliere, «li voglio vedere, io, i deputati che si auto-licenziano votando contro al mio governo...». Qualcuno rilegge l’articolo 64 ultimo comma della Costituzione, scopre che il premier va sentito «ogni volta che lo richiede», dunque Berlusconi può presentarsi in Senato subito dopo la Finanziaria, mica possono costringerlo a farsi bocciare nell’altro ramo del Parlamento. Schifani si fa interprete della linea, Fini sostiene l’opposto, entrambi convocano i capigruppo, Napolitano interviene, convoca entrambi che nemmeno si rivolgono la parola, scongiura la rissa istituzionale con la trovata salomonica della «contestualità»: il 14 dicembre le due Camere voteranno insieme (sebbene forse il Senato si sbrigherà qualche minuto prima). Ma la vera svolta si consuma nella villa di Arcore. Intorno allo stesso tavolo dove sedette Ruby, si accomoda Bossi con il suo stato maggiore, più l’intero vertice Pdl. È lunedì 14 novembre, c’è apprensione tra i «berluscones»: come si regolerà la Lega? Sanno che nella mente del Senatùr il dopo-Berlusconi è virtualmente iniziato. Ma si spingerà Bossi al punto di benedire un governo tecnico? Passano cinque minuti, poi l’Umberto alza le spalle: «Senza di noi e voi, quelli non vanno da nessuna parte... Se salta il governo, alle elezioni!». Berlusconi si alza da tavola, gli stringe la mano: «Sì, alle elezioni», ripete commosso. Forse la sfanga pure stavolta. SPACCIATO La mozione di sfiducia dei finiani pareva non lasciare spazio LO SPIRAGLIO Allungare la sfida a dopo la Finanziaria ha dato nuovi spazi FATTORE EUROPA La débâcle irlandese consiglia di non creare nuove turbolenze APPOGGI SILENZIOSI Molti parlamentari non vogliono chiudere anzitempo la legislatura