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 2010  novembre 22 Lunedì calendario

«È UNA VAJASSA» QUELLA LITE CON LA MUSSOLINI —

Io canto/ commo belle e vertolose/ so’ le vajasse/ de chesta citate. Per una pace onorevole, in fondo, basterebbe sfogliare un classico della Napoli seicentesca, la Vajasseide, l’elogio alla bellezza e alle virtù delle popolane partenopee composto da Giulio Cesare Cortese, coevo di Giambattista Basile, lo Shakespeare vesuviano cui dobbiamo Lo Cunto de li Cunti. Ma il testo, evidentemente, deve mancare dalla libreria di Alessandra Mussolini: «Non ci prova’!». In che senso, scusi? «Non provarci nemmeno a raccontarmi che vajassa è una parola buona, per giustificare quella là! L’ho capito che volete salvarla perché è ministro». Chi, la Carfagna? «Eh, quella. Lascia che mi capita davanti in Parlamento, ci deve veni’ in Parlamento, o no?». Beh, è probabile... «E appena la vedo, la insulto fissandola dritta in quei suoi occhioni che, dopo, saranno ancora più sbarrati».
Nel tabarin della politica nostrana era giusto non farsi mancare neanche quest’ultimo numero, la rissa tra due stereotipi di napoletana, l’alfa e l’omega della nostra immaginazione maschile: la filiforme nobildonna che sembra muoversi su un cuscinetto d’aria e la carnale popolana da cui ci si aspetta un colpo d’anca a ogni passo (una mossa alla Loren, per capirci, indimenticabile vajassa di Carosello napoletano e non a caso zia di Alessandra). Sicché ecco che Mara, tra un sospiro e un turbamento (in cartellone per il 15 dicembre la sua uscita dalla casa del padre, il Pdl), butta lì la stilettata nel bel mezzo di un’intervista al Mattino: «Quelle come lei a Napoli le chiamano vajasse». Perbacco, con chi ce l’ha? Ma con la sulfurea nipotina del Duce, si capisce, rea di avere immortalato con uno scatto malandrino un suo colloquio cordialissimo tra i banchi della Camera con Italo Bocchino, che un tempo era la s ua a ncora nei marosi della politica e adesso dovrebbe esserle avversario, i n quanto capo dei pretoriani di Gianfranco Fini. Mara non perdona: «Atto di cattivissimo gusto... che si addice alla persona che l’ha commesso», roba da vajasse, appunto. Apriti cielo. «Vajassa aaaa ’cchi? ».
Roberto De Simone, uno dei pochi miti ancora sopravvissuti alla lenta decomposizione di Napoli, scartabella con un filo d’ironia il suo dizionario partenopeo più antico, il Raffaele D’Andra edizione 1878: «Vediamo... sostanzialmente significava fantesca... beh, anche fantesca vecchia, brutta e stizzosa, è vero. Però il termine è stato stigmatizzato nei suoi significati positivi dal Cortese». Vallo a spiegare all’Alessandra furiosa: «Lo so benissimo cosa significa vajassa! Anche mia madre che è napoletana, fosse qui, lo direbbe. Donna dei bassi, serva, vuol dire. E pure prostituta». In effetti nella Napoli d’oggi, così lontana dalla metrica del Cortese, chi provasse a dire vajassa a qualcuna rischierebbe una coltellata... «Quando ho letto questa robaccia sono rimasta basita». La Carfagna dice anche che lei le scarabocchia le corna sui manifesti... «Falso pure questo, adesso basta! Ci vedremo alla Camera!». E naturalmente, poiché le leggi dello spettacolo impongono un rilancio continuo e messe in scena sempre più ardite, quel giorno gli spettatori avranno diritto a non attendersi niente di meno che un pubblico litigio scandito dal martellio dello scetavajasse, con un sottofondo di caccavella e un tocco di putipù, magari con l’immancabile accompagnamento di caratteristi sempre presenti, una madre piangente, un padre mezzo cornuto, un malamente che trama nell’ombra...
Forse è tutto un astuto disegno, capace che serva a fare ammuina come ai tempi di re Franceschiello, magari è un ordine di scuderia degli strateghi berlusconiani: per stemperare la lite di Mara coi mammasantissima del Pdl campano su questioni pesanti come i termovalorizzatori, cosa c’è di meglio d’una bella commedia dialettale montata così su due piedi? Mimmo De Masi, sociologo dell’immateriale e cultore del genius loci, scuote la testa e sogghigna: «I napoletani non nascono, debuttano». E la pièce di Mara e Alessandra segue fedelmente i canoni della grande commedia scarpettiana, in fondo, pare un piccolo frammento di Miseria e nobiltà, col suo carico di equivoci e fraintendimenti. «Sì, perché qui ci sono una finta vajassa e una finta nobildonna, il rovesciamento dei ruoli è perfetto... quella che fa la vajassa, che insomma gioca a fare la cafona, è pur sempre nipote di un pezzo di storia italiana, l’altra è una piccola borghese che gioca a fare la gran signora», medita perfidamente De Masi: «Pure il Padreterno s’è divertito a invertire i ruoli, ha dato all’una il fisico che serviva all’altra e viceversa».
A Napoli il Padreterno fa di questi scherzi, si sa. Perché è indiscutibile che Mara ha passato gli ultimi anni a emendarsi dal suo profilo di ragazza da copertina, ad assottigliarsi e a rendersi quasi invisibile, come s’addice a una vera dama. Ed è agli atti il tenace lavoro di Alessandra per costruirsi l’immagine «pane al pane» che adesso tanto l’offende. Indimenticabili le sue comparsate tv, quel «meglio fascisti che froci» strillato a Vladimir Luxuria, il calcione rifilato alla comunista Katia Belillo sotto gli occhi di Vespa, la sottile ironia riservata proprio a Bocchino («con quel cognome dovresti essere più prudente»). Un mito. Perfino le vajasse che ribellandosi ai gabellieri diedero inizio alla rivoluzione di Masaniello l’avrebbero presa per una di loro: senza capire, poveracce, di essere finite su Scherzi a parte.
Goffredo Buccini