Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2010  novembre 21 Domenica calendario

ANATOMIA DI UN FALLIMENTO - PRIMA

del voto alle Camere del 14 dicembre, ne vedremo probabilmente di tutti i colori. È sempre così, del resto, quando una stagione muore, e la nuova ancora stenta a prendere corpo. Su due cose, però, mi pare ci sia già chiarezza, e le possiamo assumere come riferimenti sicuri.
La prima è che se Fini si acconciasse a non negare la fiducia al governo - e si accontentasse di qualche confuso pasticcio - avrebbe politicamente chiuso. Si è spinto troppo sulla strada della rottura e della discontinuità, e ora può andare solo avanti. Può motivare, collocarsi, approfondire; ma non retrocedere, senza rovinarsi. Molti cercheranno di nascondergli questo dato di fatto: ma la politica ha geometrie spietate. Guai a dimenticarlo.
Il secondo punto riguarda il fallimento politico di Berlusconi. Dico: politico, non personale. Può darsi che egli sia prigioniero di una incurata solitudine, come è stato suggerito. Ma può essere anche che, dopo tutto, se la rida, di questi psicologismi troppo sofisticati per interpretare un uomo come lui: un edonista dalla fantasia impari alle possibilità. No: il fallimento è tutto politico - e sta esattamente nello spazio fra iniziativa di governo e ordine costituzionale. Ed è un fallimento irreversibile.
Berlusconi in due anni ha saputo sbriciolare una maggioranza debordante ed entusiasta, inseguendo solo una quotidiana e nervosa forzatura del sistema di regole che definivano i suoi poteri e le sue prerogative. È su questa evidenza - e sulle sue ragioni - che l´opposizione dovrebbe insistere.
Una componente decisiva dell´insuccesso del Premier è stata la tendenza irrefrenabile a un riduzionismo personalistico che lo rende ormai incapace di padroneggiare e gestire qualunque situazione complessa, senza che gli esploda letteralmente fra le mani. Egli non sa far altro che riportare tutto alla sua persona - "ci penso io" - e crede di poter risolvere ogni problema - compresi i suoi di giustizia - solo con la presenza e l´affabulazione: "Eccomi, e ascoltatemi". Una semplificazione estrema, cui sfugge ogni contenuto: utile in una campagna elettorale, ma inadeguata a reggere un´azione di governo. In essa scompare completamente lo spessore oggettivo delle cose - dalla gravità della crisi economica alla questione dei rifiuti in Campania - la complicata pesantezza delle situazioni che chi governa deve comunque fronteggiare ed elaborare. All´inizio dell´avventura di Berlusconi questo limite si vedeva di meno, nascosto dalla forza comunicativa di un messaggio che il Paese (o almeno una parte consistente) voleva sentirsi ripetere da lui e dalle sue televisioni, e a cui egli ha prestato interamente se stesso - la trasfigurazione del suo volto e del suo corpo, esaltato a icona di una filosofia che faceva del conflitto d´interesse non una macchia, ma la quintessenza di una ricetta vincente: egoismo privato, frenesia acquisitiva, ribellismo alle regole e dissolvimento dei legami sociali; il tutto mascherato come una inesistente e mai nemmeno tentata "rivoluzione liberale", e come trionfo di una sana impolitica.
Ma ora, che la festa è finita da un pezzo, che i consumatori in crisi si stanno dolorosamente riscoprendo cittadini dimezzati, e che la stessa potenza mediatica messa in campo ha cominciato come ad avvitarsi su se stessa, perché non ha più un discorso da proporre al Paese, l´incapacità del Capo a misurarsi davvero con la realtà intorno a lui, e prima di tutto ad accettarla per quella che è, si è manifestata all´improvviso, nella pienezza della sua drammatica profondità.
La sindrome riduzionista di Berlusconi si collega anche a un altro elemento fondante delle sue scelte, anch´esso ormai arrivato a ritorcersi contro di lui: la pulsione plebiscitaria, che lo sta trascinando a divorare le sue stesse costruzioni politiche, a cominciare dal suo medesimo partito. In questa deriva siamo ben oltre quel populismo originario, che, fra il 1994 e il 2001, aveva saputo intercettare un bisogno diffuso fra le rovine del sistema democristiano. Da quel che stiamo vedendo, siamo all´idea estrema di una sorta di delega della sovranità dal popolo al leader, di un´investitura mistico carismatica insofferente di qualunque altra mediazione: ripeto, a cominciare da quella del suo stesso partito, concepito solo come un serbatoio da cui attingere parlamentari e amministratori privi di una propria autonoma soggettività. Fin quando rimarrà Berlusconi, il Pdl non potrà essere che di plastica: poi si disintegrerà, o si rifonderà su altre basi.
In tal modo, ogni articolazione democratica è saltata: ed è questa intrinseca attitudine - la sostanza del suo comando - a mettere Berlusconi ai limiti della Costituzione, a farne, strutturalmente, un "border line" della democrazia.
Oggi però il quadro di consenso e di stati d´animo per rinnovare questo "appello al popolo" mi sembra assai logoro: i margini di manovra sono ridotti, e prevalgono piuttosto stanchezza e delusione. C´è un solo varco aperto dinanzi a Berlusconi. Ed è che la dismisura dei suoi comportamenti provochi, per contraccolpo, una radicalizzazione così veemente nell´opinione pubblica che gli è contraria, da poter essere usata da lui come base emotiva per la ricostituzione di un fronte che isoli la sinistra. Come in quei movimenti di judo, in cui si usa l´impeto stesso dell´avversario, per sbilanciarlo e abbatterlo.
In questo frangente, l´opposizione deve saper essere nello stesso tempo pacata e intransigente. Inflessibile e propositiva. Spiegare, prima di invocare. E Fini, rimanendo dalla sua parte, deve saper fare la medesima cosa. Persuadere tutti, che è ora di voltar pagina.