MARTA DASSÙ, La Stampa 21/11/2010, pagina 1, 21 novembre 2010
IL DECLINO PARADOSSALE DELLA POLITICA ESTERA
Perché la politica estera non interessa più? I giornalisti televisivi sostengono di perdere una quantità di ascolti quando parlano di problemi internazionali. Io vorrei evitare, scrivendo di politica estera, di fare perdere lettori alla Stampa.
E quindi cercherò di scrivere di cose internazionali come se fossero interne: in realtà lo sono. Prendiamo le scelte tedesche in Europa. Il modo in cui Angela Merkel - fino a ieri chiamata Mutter (mamma) dalla stampa popolare - sta gestendo la crisi del debito sovrano, non è per nulla materno. Perfino i tedeschi cominciano a lamentarsi: due giorni fa, Handelsblatt ha scritto che la Cancelliera sta imponendo condizioni così punitive ai Paesi in deficit da rischiare un effetto Versailles. Allo stesso modo della Germania, dopo la pace punitiva del 1919, i Paesi più deboli dell’euro potrebbero rispondere con un’ondata nazionalista. In questo caso rivolta contro Berlino.
Perché ci interessa - o ci deve interessare? La ragione, in questo caso, è ovvia: tutto ciò che riguarda l’euro è per definizione anche un nostro problema. Oggi guardiamo allo scarto fra titoli tedeschi e italiani come prima guardavamo al rischio di un attacco nucleare: è una questione di sicurezza essenziale.
La sicurezza, nell’epoca del dopo Guerra fredda, significa anzitutto solidità economica: ne accenna il nuovo Concetto Strategico della Nato, appena approvato a Lisbona. Al Consiglio europeo di dicembre, fra due settimane, verrà varata una riforma delle regole di gestione dell’euro che ci condizionerà fortemente. Ma che abbiamo in parte contribuito a scrivere e a modificare. A scriverle perché in fondo continuiamo a credere nell’antica regola aurea della politica europea dell’Italia: un vincolo esterno ci serve. A modificarle perché siamo riusciti a ottenere un’interpretazione complessiva di ciò che va inteso come sostenibilità di un Paese: non solo il criterio nudo e crudo del debito pubblico (il vincolo esterno sarebbe diventato suicida) ma anche il livello di risparmio privato, la salute del sistema bancario e così via.
Questo esempio, lo ammetto, è però troppo facile. Da parecchi decenni, infatti, la politica europea non è più una politica estera classica. E’ piuttosto, secondo una definizione ormai molto usata, una politica «intra-domestica».
Proviamo allora a guardare non all’Europa ma ai grandi equilibri - o meglio squilibri - globali. Nel giro di qualche giorno il G20 di Seul prima e il vertice di Lisbona poi hanno dato due messaggi opposti. A Seul, Cina e Germania, le grandi economie in surplus, si sono trovate dalla stessa parte nella loro critica agli Stati Uniti. A Lisbona, il patto Europa-America, da più di mezzo secolo imperniato sul rapporto fra Berlino e Washington, è stato rilanciato da un Obama reduce dal lungo viaggio asiatico. E il mondo euro-atlantico ha tentato di ancorare Mosca, capendo, con qualche ritardo, che l’altra pace punitiva del secolo scorso - quella che gli occidentali hanno somministrato all’Urss in fase terminale, dopo averla sconfitta nella Guerra fredda - non è convenuta granché.
Qual è il segno principale dei tempi, allora? La divergenza fra Berlino e Washington sul modo di lasciarsi alle spalle la crisi economica (la Germania come Cina d’Europa), la tentazione asiatica degli Stati Uniti (Obama come primo presidente dell’America Pacifica) o il rilancio atlantico ed europeo a Lisbona, con l’apertura alla Russia?
Posso certamente sbagliare, ma continuo a pensare che la relazione fra Paesi occidentali abbia ancora tempo davanti a sé. Per quanto decisivo sia il peso della Cina, è difficile credere che Pechino possa diventare l’interlocutore preferenziale: per la Germania o per l’America. Ma il «segno» dei tempi è che le alleanze internazionali sono comunque meno solide e meno cogenti di prima. Il gioco è diventato più libero.
Il punto è che si tratta di una libertà solo apparente: ai condizionamenti economici esterni si aggiungono nuovi tipi di pulsioni e condizionamenti interni. Che complicano la vecchia «foreign policy». Nel caso degli Stati Uniti, è la polarizzazione estrema della dinamica politica a pesare negativamente: il rapporto di Obama con la Russia è ostaggio di un Congresso che aborrisce accordi bipartitici. Nel caso della Germania, il peso di vincoli interni (dalle sentenze della Corte Costituzionale alla fragilità della coalizione di governo), o sentiti come tali, spiega molte delle scelte di Angela Merkel. Che da europee diventano nazionali.
E arrivo così alla conclusione a cui non avevo pensato. Che la politica estera interessi poco, dopo tutto, è normale. Perché quello che conta veramente è l’incontro/scontro, più veloce e diretto di quanto sia mai stato, fra i riflessi domestici di un numero crescente di attori. Il declino della politica estera è il paradosso dell’epoca globale. Con questo articolo Marta Dassù, direttore della rivista Aspenia, comincia la sua collaborazione con «La Stampa».