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 2010  novembre 22 Lunedì calendario

Kirsty Coventry - Ogni medaglia è una parata. C’è la festa nazionale, la fanfara all’aeroporto, i fiori e le ricompense, solo che l’uomo in attesa in fondo al tappeto rosso è un dittatore

Kirsty Coventry - Ogni medaglia è una parata. C’è la festa nazionale, la fanfara all’aeroporto, i fiori e le ricompense, solo che l’uomo in attesa in fondo al tappeto rosso è un dittatore. Quando Kirsty Coventry vince, è lo Zimbabwe che trionfa e il presidente Robert Mugabe non può perdere l’occasione di mettersi in mostra con «il tesoro del Paese» o la «ragazza d’oro», giusto per citare due soprannomi con cui hanno ribattezzato Coventry dopo l’oro nel nuoto ad Atene 2004, nei 200 dorso. Solo il primo di tanti successi, tutti immortalati con una foto ricordo vicino a uno degli uomini più contestati al mondo. Mugabe è accusato di perseguitare gli avversari politici, di ghettizzare i bianchi, di appropriarsi degli aiuti internazionali. Non può circolare in Europa, non può entrare in America se non per una seduta Onu. Ha una pessima reputazione, ma è il capo, l’uomo che decide in Zimbabwe e se Kirsty Coventry vuole rappresentare la sua nazione deve conviverci. E schivare, senza darlo a vedere. Olimpiadi 2004, lei vince un oro che manda lo Zimbabwe in delirio e quando torna c’è lo Stato che l’aspetta. Come l’ha vissuta? «Ero confusa, agitata ed euforica e non ero assolutamente in grado di capire che succedeva. Prima di allora non mi ero resa conto nemmeno di cosa fossero i Giochi, sono cresciuta ad Harare, ho iniziato a nuotare nella piscina di casa: non avevo idea di che fosse il professionismo. Figuriamoci un oro. Il giorno prima del rientro mia madre mi chiama e mi dice: preparati perché ci sarà tanta gente, stai calma. Ma niente mi poteva preparare». C’era anche Mugabe, lo ha conosciuto? «Sì, certo. Sempre che conoscere significhi stringere una mano, salutare e dire qualche frase di circostanza». Che impressione le ha fatto? «Lui è il presidente dello Zimbabwe, un Paese che sono fiera di rappresentare. Tutto qui, non abbiamo chiacchierato, non siamo sullo stesso piano. Era lì a rappresentare un’istituzione e io mi sono comportata di conseguenza». Nel 2008, a Pechino, altro oro (sempre nei 200 dorso) e altro giro di banda e bandiere. Preferirebbe celebrazioni più sobrie? «Sì, se potessi scegliere, ma lì non c’è solo il governo, c’è la gente, le persone come me, felici di vedere il nome dello Zimbabwe ai Giochi, di sentire l’inno. Abbiamo avuto alti e bassi, un sacco di problemi, anni complicati e sentire che lo Zimbabwe sta sul gradino più alto del podio e non accostato a notizie drammatiche è una bella sensazione. Quindi quei bagni di folla li ho fatti volentieri». Non ha la sensazione di essere usata dalla politica? «E crede che succeda solo in Zimbabwe? Lo sport è sempre stato sfruttato dalla propaganda, capita a tutte le latitudini quindi come dobbiamo comportarci, smettiamo di vincere per non avere problemi? Manifestiamo su ogni podio per poi fermarci lì? Io so che faccio ogni giorno: mi alleno, mi preparo, nuoto. È il mio mestiere, il mio compito. Guardiamo oltre le foto ufficiali. Prima di me non c’erano strutture in Zimbabwe, ora esiste un comitato olimpico che si muove per promuovere lo sport, hanno costruito piscine, aiutano i ragazzini a iniziare. Ai Giochi del 2008 eravamo 12 atleti e oltre alle mie medaglie sono arrivati altri buoni piazzamenti, prima era il deserto. I miei risultati hanno dato il via a un movimento, a una possibilità». E non la imbarazza dover condividere quei risultati con Mugabe, considerato da tutti all’estero un dittatore? «Quando mi tuffo in gara, so esattamente chi c’è a destra e chi c’è a sinistra. Conosco le avversarie, i tempi di cui sono capaci, la tecnica che sfruttano eppure non posso calcolare tutte le variabili, non posso sapere come si muoveranno, che sorprese riservano, se partiranno a razzo o no. Eppure mi butto. Ed è così anche fuori dall’acqua: io so bene chi c’è alla mia destra e chi c’è alla mia sinistra, ma non posso decidere io il loro modo di agire e di pensare. Non faccio politica, nuoto e vivo cercando di fare del mio meglio». Lei è l’unica faccia bianca portata ad esempio dal suo Paese. «Dopo gli ori ai Giochi tutto lo Zimbabwe si è commosso, ha festeggiato, si è riunito. Io sono la dimostrazione che bianchi e neri si possono muovere insieme e sarò stata fortunata, ma non ho mai vissuto episodi di razzismo ad Harare». Però ha scelto di vivere all’estero... «Per lo sport, non avrei potuto allenarmi come si deve a casa. Ma dopo 9 anni a Auburn ora mi preparo a Johannesburg in modo da poter tornare spesso dai miei». Come ha iniziato? «Stavo sempre in acqua, la piscina è nel giardino. Ci ho passato tutto il tempo fin da bambina. A nove anni ho detto ai miei: voglio andare alle Olimpiadi. Hanno fatto finta di credermi, ma se non avessi vinto una borsa di studio non mi avrebbero mai lasciato andare in America solo per il nuoto». Ad Atene era frastornata e a Pechino, 4 anni dopo? «Delusa» Ha vinto un oro e tre argenti. «Appunto, gli argenti tutti di niente: ero nervosa e sapevo che senza piccoli errori avrei vinto anche sulle altre distanze. Se ci ripenso adesso, è ovvio, sono soddisfatta. Ma quel fastidio mi spingerà a Londra». Smaltita la sbornia da costumoni? «I Mondiali di Roma sono stati un incubo, contava solo quel che avevi addosso, e tutti a metterti il dubbio: sarà meglio con questa o con quella marca. Il tipo di stress che consuma l’atleta, però lì, per me, le donne sono diventate importanti quanto gli uomini in questo sport». I nuotatori smettono presto, lei ha 27 anni e punta al 2012. «Ancora merito dello Zimbabwe, lì cresci senza aspettative, è un mondo che ti educa alla semplicità e tutto ciò che viene è talmente fantastico che per quanta fatica costi non voglio mollare. Non mi pesa. Davanti a certe gare ancora mi stupisco».