CLAUDIO GALLO, La Stampa 22/11/2010, pagina 15, 22 novembre 2010
Il Dalai Lama: vado in pensione - Va dicendolo da oltre dieci anni ma è ancora lì sotto i riflettori, col suo sorriso compassionevole che lampeggia sotto il testone calvo, la tunica giallo-granata, le scarpacce stile Church e il calzino bordeaux corto
Il Dalai Lama: vado in pensione - Va dicendolo da oltre dieci anni ma è ancora lì sotto i riflettori, col suo sorriso compassionevole che lampeggia sotto il testone calvo, la tunica giallo-granata, le scarpacce stile Church e il calzino bordeaux corto. «Tra sei mesi potrei dimettermi», ha ripetuto ieri il XIV Dalai Lama nel corso di un’intervista a una tv indiana. Settantasei anni, fuggito nel 1959 dal Tibet occupato dai cinesi, il diore dei buddhisti tibetani vuole andare in pensione e tornare da privato cittadino nella sua patria sul tetto del mondo, anche se è difficile immaginare che i cinesi vorranno un tale imbarazzante simbolo vivente a spasso per le strade di Lhasa. Tenzin Gyatzo ha spiegato che la decisione ultima è nelle mani del parlamento tibetano in esilio a Dharamsala, nel Nord dell’India. «Voglio informarli della mia intenzione, anche se qualcosa gliel’avevo già anticipato». Il capo religioso e politico dei tibetani in esilio (considerato tale anche dalla maggior parte degli abitanti della provincia cinese chiamata Tibet) ha spiegato che dal 2001 non interviene più nelle decisioni del governo. «Da allora - ha spiegato - la mia posizione è quella di semi-pensionato. Le decisioni cruciali sono prese dalla leadership politica. Per rispettare i principi della democrazia, ritengo sia meglio non intromettermi in quel genere di scelte». Celestino V con gli occhi a mandorla? Novello Sesto Dalai Lama che snobbò il potere per la poesia? Difficile dire, anche perché sull’argomento delle sue dimissioni il Dalai Lama ha cambiato parere diverse volte. Nell’agosto del 1990 aveva detto ai reporter: «I tempi sono cambiati, non c’è alcun motivo per conservare questa istituzione». Allora sembrava che la teocrazia tibetana dopo quattro secoli dovesse morire con lui. D’altra parte le antiche cronache religiose di Bu-ston adombravano che la durata dei Dalai Lama non potesse andare oltre due volte sette. E Tenzin Gyatzo è il quattordicesimo. Ieri tuttavia il leader tibetano è stato più possibilista. Alla domanda se la figura del Dalai Lama sarebbe scomparsa con la sua morte, ha risposto: «Se dovessi morire entro pochi anni, è molto probabile che i popoli interessati, dalla Mongolia alle terre buddhiste del Himalaya, vogliano mantenerla». Parole che non risuonano rassicuranti alle orecchie della Cina, che anni fa aveva pensato bene di fare sparire Gedhun Choekyi, il Panchen Lama nominato dal governo in esilio. Prigioniero politico a sei anni, la seconda carica del buddhismo tibetano fu sostituito con un candidato scelto da Pechino. «Certo il mio successore sarà un bel mal di pancia per i cinesi», ha detto il Dalai Lama ridendo. Per ora avanza anche l’ipotesi di un vice: «Se la gente vuole davvero mantenere viva questa istituzione, all’approssimarsi della mia dipartita o nel caso di decrepitezza, si potrebbe nominare un vice. Non so come si potrebbe chiamare questo incarico, qualcuno insomma che porti avanti il mio lavoro». Proprio per i problemi con i cinesi sarà difficile che il successore possa (ri)nascere in Tibet. «Se la mia morte avverrà mentre sono ancora in esilio, allora logicamente la prossima reincarnazione sarà tra la comunità della diaspora per riprendere le fila del mio lavoro». Infine, il Dalai Lama ha confermato che non stava affatto scherzando quando disse che al suo posto potrà benissimo esserci una donna. «L’ho detto vent’anni fa ed ero molto serio: è possibile. Una reincarnazione femminile sarebbe più efficace e più utile nel servire la Legge di Buddha, perché no?». La storia dei Dalai Lama è particolarmente intricata. Anzitutto il primo è il terzo, Sonam Gyatzo. Abate della setta buddhista Gelug-pa, popolarmente noti come «i gialli», Sonam Gyatzo incontrò nel 1579, presso il lago Koko-nor, il principe mongolo Altan Khan. Il capo di quella banda di feroci razziatori fu così colpito dal fascino del monaco che gli diede su due piedi il titolo mongolo di Dalai (Oceano, sottointeso di saggezza). Lama in tibetano significa letteralmente «ciò che sta in alto» ed è l’equivalente della parola indiana guru, guida spirituale. Il titolo onorifico, divenuto il sigillo del nuovo potere dei gialli, fu esteso retroattivamente ai due precedenti abati Gelug-pa. Secondo un costume tibetano i successori del Dalai Lama sono scelti per reincarnazione: appena muore, si cerca in quale bambino appena nato la sua anima (per brevità, il termine farebbe sobbalzare un buddhista) sia andata ad albergare. Con molto senso pratico, il Quarto Dalai Lama fu individuato tra i nipotini di Altan Khan.