Vari, La Stampa 22/11/2010, pagina 10, 22 novembre 2010
Sciopero spettacoli - Per non vedere, causa delocalizzazione crescente, film e fiction «ambientati in Maremma e girati nella Pampa argentina»
Sciopero spettacoli - Per non vedere, causa delocalizzazione crescente, film e fiction «ambientati in Maremma e girati nella Pampa argentina». Per non trovare chiuse le porte dei teatri d’Italia. Per non dover rinunciare ai concerti, alla musica, alla danza. Per non perdere il conforto dell’arte, per non dimenticare la bellezza. Oggi, in tutt’Italia, il mondo dello spettacolo scende in piazza. Nella capitale l’appuntamento è al cinema Adriano, parleranno in tanti, dall’eroe del «Medico in famiglia» Giulio Scarpati al sex-symbol Riccardo Scamarcio, e poi rappresentanti del movimento «Tutti a casa», dei «Centoautori», degli interpreti e delle maestranze. Nel pomeriggio, a Milano, la mobilitazione va in scena alla Camera del Lavoro. Al convegno «La cultura bene comune» sono attesi, tra gli altri, l’attore pluripremiato Toni Servillo, la regista Andrée Ruth Shammah, il sovrintendente del Teatro alla Scala Stephane Lissner, l’artista Moni Ovadia. A Bari il punto d’incontro, ore 18, è davanti allo storico Teatro Petruzzelli. Il Carlo Felice di Genova ospita il maestro Zubin Metha che tiene un concerto in sostegno del teatro e dello sciopero. Domani, dopo la protesta, diversi artisti si ritroveranno al Quirinale, ospiti del Presidente Napolitano per l’annuale cerimonia dei Premi de Sica, un’occasione significativa dove l’eco della manifestazione potrebbe acquistare nuova importanza. Mille voci, per una volta tutte insieme, grideranno contro i tagli alla cultura: «Il frastuono del crollo di Pompei - dice Sergio Escobar, direttore del Piccolo di Milano e presidente dell’associazione stabili italiani - ha rotto il silenzio sulla mancata responsabilità di investire e gestire le risorse per la cultura. Voglio richiamare l’attenzione delle forze politiche su un altro crollo che rischia di sfigurare in modo irreversibile il nostro Paese: quello di tutte le attività dello spettacolo dal vivo». Allo sciopero generale, indetto dai sindacati (Slc-Cgil, Fistel-Cisl e Uilcom-Uil), con l’adesione di Anica e Agis, parteciperanno più di 250mila lavoratori del settore spettacolo, chiuse le sale cinematografiche, luci spente sui palcoscenici della prosa, della lirica, dei circhi. Per ridare ossigeno al settore i sindacati chiedono l’approvazione delle leggi quadro di sistema dello spettacolo dal vivo e cineaudiovisivo, la conferma del ri-finanziamento per il prossimo triennio degli incentivi fiscali al cinema (tax shelter e tax credit), il riallineamento del Fus al livello del 2008, vale a dire a circa 450milioni di euro. «La nostra industria produce ricchezza - dice Giulio Scarpati - non si può lasciarla allo sbando. Il futuro del Paese si gioca anche nel campo dello spettacolo e della cultura». La delocalizzazione è uno dei problemi più gravi: «Se si gira all’estero, gli attori principali restano italiani, ma il resto del cast, i comprimari, si ingaggia sul luogo e quindi i nostri giovani non hanno più possibilità di crescita». Secondo lo sceneggiatore Stefano Rulli, in prima linea per i «Centoautori», la tendenza a spostare le produzioni fuori dai confini nazionali per abbassare i costi, riguarda da vicino anche il pubblico: «E’ un problema di qualità, di forma delle convenzioni narrative. In passato si girava in studio, con le città di cartapesta, adesso c’è il pericolo di abituarsi a trovare nei film Via Veneto ricostruita a Sarajevo». Insomma, si risparmia, ma come si formerà l’immaginario collettivo di un pubblico cresciuto vedendo Roma rifatta a Rosario, in Argentina? Per la Rai, fa notare Rulli, c’è una colpa in più: «Come servizio pubblico dovrebbe garantire il lavoro agli italiani, e invece consente la delocalizzazione senza battere ciglio». Maurizio Feriaud, segretario generale del sindacato attori saislc-cgil spiega che i produttori tendono ormai a «spostare produzioni all’estero anche quando non ce n’è motivo, ma prendere lì interpreti e tecnici significa tagliare migliaia di ore di lavoro». La categoria degli attori è quella più a rischio: «Non esiste il contratto collettivo nazionale per il cine-audiovisivo, c’è in tutt’Europa, ma da noi no. Quelli che lavorano e non hanno problemi sono poche decine, a fronte di migliaia di colleghi che, in assenza di contratto, versano in condizioni gravissime». Il ministro per i beni culturali Sandro Bondi ricorda il suo impegno per la proroga del tax-credit e del tax-shelter: «Ho capito che era un provvedimento giusto e in 7 mesi ho fatto la mia parte, l’ho portato a compimento, ho una parte di merito». Ma il ministro per la Pubblica Amministrazione Renato Brunetta, intervistato su La7 nella puntata di oggi di «Effetto Domino», riaccende la polemica : «Una cosa è la cultura, una cosa è lo spettacolo, una cosa sono le rappresentazioni. Lo Stato finanzia i beni pubblici, non necessariamente finanzia i beni privati. La cultura è un bene pubblico e va finanziato. Lo spettacolo no». E ancora: «In passato, sulla base di commissioni clientelari uno presentava un copione e riceveva 1 milione, 2 milioni a fondo perduto. Quando quei 4 di Liverpool hanno commercializzato le loro canzoni, quelle sono diventate cultura. E poi sono state tutelate». FULVIA CAPRARA *** Nel giorno in cui il mondo dello spettacolo scende in piazza contro i tagli alla Finanziaria, vorremmo parlare in maniera corretta. Non siamo un esercito di sfaccendati privilegiati ma un esercito di 250.000 lavoratori che di audiovisivo vive e che attraverso il suo lavoro alimenta l’immaginario di un paese. Quella visione fasulla e pretestuosa è stata sostituita dalle parole e dalle richieste che proponiamo da tempo, quasi che fossimo riusciti a generare una visione del cinema italiano che «suona» bene e che è giusta per chi conosce ed ama il nostro lavoro. Abbiamo ascoltato promesse per il rinnovo degli incentivi fiscali e del FUS, promesse per cui ci batteremo affinchè siano mantenute, ma crediamo ci dovrà essere anche dell’altro se non vogliamo ritrovarci tra un anno nelle stesse piazze ad urlare gli stessi slogan. Mi piacerebbe sottolineare solo tre argomenti a cui teniamo particolarmente. Primo punto: non vogliamo più essere connessi alla poltica e soprattutto al giudizio dei governi, qualsiasi essi siano. Siamo disposti ad un profondo ripensamento del sistema di finanziamento pubblico del cinema, ma solo dopo aver approvato una legge di sistema che regolamenti una volta per tutte i rapporti tra tutta la filiera di chi produce, distribuisce, usa l’audiovisivo. Una legge che permetta al cinema di camminare da solo indipendentemente da umori e tendenze dei poltici del momento. Per questo crediamo che il sistema si debba finanziare prevalentemente da solo. Siamo disposti a fare la nostra parte nella definizione di criteri giusti e lungimiranti. Secondo punto: delocalizzazione. Oggi molte produzioni tv sono girate all’estero, col paradosso che il denaro del canone Rai viene speso in altri paesi, soprattutto dell’Est Europa per questioni di risparmio. Questo si traduce in minori giornate di lavoro per troupes italiane, tecniche ed artistiche, che quest’anno hanno realizzato il 50% in meno di giornate lavorative, e in minori entrate fiscali per lo stato. Terzo punto: Cinecittà ed il Centro Sperimentale siano rimessi in condizione di essere l’eccellenza nella produzione e nell’insegnamento cinematografici. E venga inserito il cinema come materia di studio della nostra storia. A volte percepisco una - forse involontaria - contrapposizione tra necessità inderogabili - come quella della ricostruzione de L’Aquila - e le nostre. Come se si dovesse scegliere una priorità: costruire le case o costruire nuova cultura? Ecco, io credo che le due cose non dovrebbero essere in contrapposizione. Giusto e prioritario amministrare le emergenze nella maniera più efficace. Ma altrettanto giusto è immaginare la rinascita di una città che parta dall’elemento più importante. La sua piazza. Una volta che ci si renderà conto che cultura, piazza, socialità, conoscenza, scuola, ricerca, sport, musica, sono gli antidoti più potenti all’infelicità, credo si smetterà di pensare in contrapposizione al pane e alle rose. Abbiamo bisogno di tutte e due. Questo paese ha una vitale necessità di «anima», è un paese che non sa più di poter formulare una pretesa: quella di essere felice. Se la classe politica se ne rendesse conto, proporrebbe all’ Italia un sogno di cui tutti abbiamo necessità. In cambio non otterrebbe solo consenso, ma anche riconoscenza. D ANIELE L UCHETTI *** Inumeri, dunque. A leggere fra i dati Istat si scopre che la macchina dello spettacolo è una voce niente affatto trascurabile del bilancio Italia, una macchina che consuma molte risorse ma genera anche ricchezza: basti dire che nel 2008 la spesa al botteghino per acquistare un biglietto o un abbonamento per teatro, cinema, concerti di musica classica e leggera e manifestazioni sportive è stata di 1 miliardo e 593 milioni di euro. Il 40 per cento di questa spesa era destinato al cinema, il 37,7 per cento a teatro e musica, classica, lirica o rock; lo sport contribuiva per il 22,3 per cento. Insomma, ogni italiano in media ha speso 26,63 euro per vedere uno spettacolo. Nel 2010 più di due terzi sono andati almeno una volta fuori casa a vedere uno spettacolo (70,8% uomini e 62,8% donne): il cinema si conferma in cima alle preferenze: una persona su due ha visto almeno un film. Nella graduatoria seguono il teatro (22,5%), la frequentazione di discoteche e balere (22,4%), i concerti di musica leggera (21,4%) e quelli di musica classica (10,5%). Ma chi contribuisce a costruire, sostenere e guidare questa macchina imponente? I lavoratori di musica, prosa e cinema sono circa 550mila persone, che vivono grazie a produttori privati, agli introiti del pubblico e naturalmente ai contributi statali del Fondo Unico per lo Spettacolo. E questo è il punto dolente che li porta sulle barricate: i lavoratori chiedono di riportare il Fus al livello del 2008, vale a dire a circa 450 milioni di euro. Quest’anno, invece, il Fus è sceso a 408 milioni, ma sopratutto con la nuova Finanziaria minaccia di scendere ben più drasticamente, del 36,6 per cento, ossia a 262 milioni di euro, mentre anche province, comuni e regioni dovrebbero spendere il 40 per cento in meno. Significherebbe ripensare radicalmente il sistema. All’interno del settore spettacolo, naturalmente, ci sono differenze. I lavoratori del cinema, per esempio, vorrebbero sopratutto veder riconfermati gli incentivi fiscali (tax credit e tax shelter) che permettono di reinvestire i proventi dei film in nuovi film. Ma la loro più grande paura è un’altra, la «delocalizzazione» delle produzioni: per risparmiare sui costi ultimamente si è girato molto spesso all’estero, il che significa regista e attori principali italiani ma il resto del cast straniero, così come le maestranze: dal 2008 ad oggi sono state perse in questo modo 155mila ore di lavoro e 21 milioni 267mila euro di introiti. Qualche numero in più? Nel 2008 su 244 settimane di riprese, 139 si sono svolte in Italia, 105 all’estero con l’ingaggio di 590 lavoratori stranieri. Oggi la situazione è peggiorata: nei primi mesi del 2010 le settimane girate fuori casa sono 135 a fronte di 57 in Italia, con un danno di 30 milioni di euro. Diverso il discorso dei teatri d’opera: se infatti il cinema, data la popolarità, in qualche modo riesce a far quadrare i conti, la lirica, spettacolo d’élite, fatica di più. Ma è anche vero, sostengono gli addetti ai lavori, che qui lo Stato ha più interesse a investire, essendo la lirica un vero passaporto per il nostro Paese all’estero. Sta di fatto che sono molte le fondazioni lirico-sinfoniche in grave difficoltà, a partire dal Carlo Felice di Genova che è stato messo in amministrazione controllata e dove Zubin Mehta dirige stasera simbolicamente un concerto gratuito. Sull’orlo del baratro anche il Lirico di Cagliari, mentre il Comunale di Bologna esce sfiancato da una lunga diatriba tra sovrintendente Tutino e masse artistiche e ha dovuto ridurre drasticamente il cartellone, come l’Opera di Roma, che per far quadrare i conti ha già cancellato l’«Adriana Lecouvreur» dal cartellone di novembre e il San Carlo di Napoli la cui stagione è avvolta nelle nebbie. Cosa succederà? Questo è uno spettacolo su cui si deve ancora alzare il sipario. RAFFAELLA SILIPO