Vari, La Stampa 22/11/2010, pagina 8-9, 22 novembre 2010
Irlanda (+tabella) - Alla fine l’Irlanda ha ammesso di non poter resistere da sola. La richiesta di aiuto all’Unione europea e al Fondo monetario è partita ieri
Irlanda (+tabella) - Alla fine l’Irlanda ha ammesso di non poter resistere da sola. La richiesta di aiuto all’Unione europea e al Fondo monetario è partita ieri. Dai ministri dell’Eurogruppo, riuniti ieri sera in conferenza telefonica, è arrivato il via libera al salvataggio: si parla di 80-90 miliardi di euro. L’importo non è ancora definito nel dettaglio, tanto che la Germania, come già è accaduto per la Grecia, tira il freno. Il ministro dell’Economia tedesco, Schauble, ha spiegato che «non è stata decisa alcuna cifra» e che gli aiuti non sono automatici. Il commissario alle Finanze Ue, il finlandese Olli Rehn ha detto che il piano targato Ue-Fmi avrà una durata di 3 anni. Entro martedì il governo di Dublino approverà i dettagli del piano di austerità che aveva sperato di poter rimandare a dopo l’elezione suppletiva di giovedì prossimo. A differenza della Grecia, soccorsa con 110 miliardi, il dissesto dell’Irlanda proviene per intero dalle banche, rivelatesi «troppo grandi per essere salvate» dal Paese in cui hanno sede. Le esitazioni del primo ministro Brian Cowen hanno accresciuto il conto da pagare, con una fuga di depositi che viene stimata in 40 miliardi nelle ultime due settimane. Nel più recente sondaggio la coalizione di governo è al 20%, i due principali partiti di opposizione al 60%. Tra le misure Cowen preferirà forse ridurre il salario minimo (oggi 8,65 euro l’ora) e l’indennità di disoccupazione, mentre non intende toccare la bassa aliquota di imposta sulle società (12,5%, meno della metà che in Italia) con la quale molte multinazionali sono state invogliate a insediarsi nell’Eire. Francia e Germania premevano per correggere questa che ritengono una concorrenza sleale, ma di fronte al no compatto di governo e opposizione irlandesi la questione pare accantonata. «Non è all’ordine del giorno» la modifica dell’imposta sulle società, ha insistito ieri il ministro delle Finanze Brian Lenihan; le multinazionali già minacciavano un esodo. All’opposto i sindacati, che scenderanno in piazza sabato, protestano contro il calo del salario minimo, perché «l’Irlanda è già uno dei Paesi del mondo a più alta diseguaglianza» sostiene Jack O’Connor, presidente della federazione delle Trade Unions . «Non ci faremo dettare le misure dal Fmi» ha ripetuto Cowen. Risponde alle opposizioni che vedono in pericolo la sovranità nazionale; secondo i sondaggi il suo partito, il Fianna Fàil, perderà quel seggio fino a poco fa ritenuto sicuro. Soprattutto con il Fmi si sta discutendo una completa ristrutturazione del sistema bancario irlandese, con scorpori di attività difficili da realizzare e con fusioni. Le tre banche maggiori, Bank of Ireland, Aib, Anglo Irish, già nazionalizzate in tutto o in parte, sono state dichiarate in vendita senza risultati; si parla anche di operazioni sulle tre che seguono per importanza, Ulster Bank, Ebs, Irish Life & Permanent. Tutte hanno bisogno di essere ricapitalizzate; secondo gli analisti di Barclays Capital, serviranno a questo scopo da 22 a 37 miliardi di euro del prestito Ue-Fmi (in aggiunta ai quasi 50 già messi in bilancio dal governo). I banchieri sono riusciti a far scomparire circa 15.000 euro a testa per ogni cittadino. L’incertezza sull’ammontare totale del prestito Ue-Fmi deriva da quanto si vorrà accantonare per coprire le necessità di finanziamento del governo; l’attuale sbilancio fra entrate e uscite, secondo Lenihan, è di 19 miliardi di euro. Sul prestito Dublino pagherebbe interessi di circa il 5,5% contro l’8% e oltre dei tassi di mercato attuali. STEFANO LEPRI *** «Gli irlandesi non possono continuare a credere che sia possibile avere il pane imburrato e il panetto di burro intero, devono rinunciare a essere un paradiso fiscale». Jacques Attali è perentorio. L’economista e banchiere, ex consigliere di Mitterrand e Sarkozy, ritiene che «le finanze pubbliche dei Paesi dell’Ue non siano assolutamente sotto controllo» e definisce la situazione «per niente rassicurante». Considera il salvataggio dell’ex tigre celtica un possibile spartiacque. Tutto dipenderà da chi si sceglierà di far fallire, se lo Stato o gli istituti di credito che ne hanno minato le sue fondamenta finanziarie. Nel suo libro «Come finirà?» (Fazi), Attali afferma che Grecia, Spagna e Portogallo pagano cari i prestiti al punto che «non fanno altro che aumentare i loro debiti e saranno presto tutti insolventi». Il francese sostiene che «di fronte a questa deriva non c’è neppure vagamente un’idea comune di quali azioni mettere in atto». La ricetta per l’Irlanda è inefficace? «Dipende. Se l’Europa decide di aiutare le banche a non fallire per consentire al governo di non aumentare le tasse è chiaro che non è la soluzione. Si salva il sistema, ma si conserva il malanno che ha creato le premesse del suo fallimento». Pensa alla corporate tax al 12,5%? Ci devono rinunciare? «Si. E’ un passo inevitabile per archiviare la natura di paradiso fiscale dell’Irlanda». Esiste in Europa la volontà di cambiare le cose per andare oltre le difficoltà? «Abbiamo già vissuto momenti non dissimili e li abbiamo superati. Ora si vede che non basta l’euro senza un federalismo di bilancio. E’ il prossimo passo. Sennò esplode tutto». Pessimista oppure ottimista? «Certo non pessimista. Le soluzioni esistono. Federalizzare i bilanci europei, istituire un’agenzia Ue del Tesoro ed emettere eurobond per finanziare le azioni comuni. Si può fare in fretta, è una decisione da tre minuti e mezzo. E’ modo elegante e facile. Può giovare all’Europa. Perché, va ricordato, il debito non è per definizione un’entità cattiva». Come li convince i tedeschi a emettere eurobond e avere i conti in comune con gli altri? «Li capisco, in realtà. Temono che la moneta sia debole. Eppure l’euro è destinato a diventare una valuta debole se non avrà una struttura di riferimento, se non c’è una contabilità comune basata su politiche comuni. La partita si sbloccherà quando la Germania si renderà conto che il federalismo di bilancio è necessario». Nel suo libro prevede il fallimento di Grecia, Portogallo e Irlanda. Preoccupato? «Non lo sono perché ci sono molti modi per fallire. Un default può essere imposto, oppure volontario. Un riscadenzamento pilotato del debito può non essere un fatto traumatico o catastrofico. Lo si è visto del caso argentino». In tempi di euroscetticismo, è realistico chiedere un salto così grande? «Il problema è se abbiamo o meno degli uomini di stato veri, figure capaci di essere all’altezza delle sfide». MARCO ZATTERIN *** Le grandi compagnie americane, Hewlett Packard, Intel, Microsoft e Merrill Lynch hanno lanciato un ultimatum all’Irlanda. I colossi Usa hanno avvisato Dublino che se aumenterà le tasse per le imprese, attualmente al 12,5 per cento, percentuale più bassa nell’Ue, ritireranno i loro investimenti dal Paese. Per questo forse, secondo il Sunday Telegraph, il ministro irlandese delle finanze, Brian Lenihan, ha assicurato che l’aumento delle tasse non è una condizione per la concessione degli aiuti. A farsi portavoce dei timori delle aziende Usa è stato Lionel Alexander, presidente della Camera di Commercio americana in Irlanda e senior executive di Hp. Nella ex Tigre celtica gli investimenti esteri sono pari a 110 miliardi, ovvero il 70% dell’export con le compagnie americane che in Irlanda danno lavoro a 100 mila persone. Ma non tutte le aziende americane alzano le barricate contro il possibile aumento delle tasse. Google e il fondo Pimco mostrano maggiore comprensione verso i sacrifici di Dublino. Intanto nelle ultime settimane, 130 miliardi sono stati immessi nelle banche irlandesi, 95 dei quali ai principali istituti, per scongiurare il rischio di una fuga dei capitali, evidenziano i dati della Banca centrale europea e della Banca d’Irlanda. Le sei grandi banche irlandesi sono ora del tutto dipendenti dagli aiuti stranieri per sopravvivere. Il rapporto fra prestiti a depositi ha superato del 160% la soglia giudicata corretta. *** Quando la «tigre celtica» ruggiva, ci avevano raccontato che gli irlandesi in fretta stavano diventando più ricchi di tutti gli altri europei. Già nel 1998 avevano superato l’Italia, nel 1999 la Germania, nel 2000 la Svezia; all’inizio della grande crisi, nel 2007, il loro reddito per persona tallonava da vicino quello degli Stati Uniti. Bene, non era vero. O meglio, i dati erano esatti, però l’uso che se ne faceva era sbagliato. La tabella Eurostat sul prodotto lordo pro capite a parità di potere d’acquisto - la stessa sulla quale si è misurato il sorpasso della Spagna sull’Italia - nel caso dell’Irlanda non dice tutto. Per capire quanto ne va davvero in tasca ai cittadini dell’Eire, occorre sottrarre i profitti delle multinazionali attratte lì dalla bassa tassazione. Negli ultimi anni, occorreva sottrarre in media attorno al 15%. Così, con un più realistico calcolo (in termini tecnici, il prodotto nazionale lordo invece del prodotto interno lordo), il tenore di vita ante-crisi degli irlandesi sarebbe risultato grosso modo in linea con molti altri paesi dell’Europa del Nord. Poi si è sgonfiata la bolla dell’edilizia, e sono venuti al pettine i nodi di un modello di sviluppo dai successi fragili. I frutti di almeno un terzo del «boom» erano illusori; la parte restante poggiava sul castello di carte dei debiti esteri delle banche. L’economia irlandese resta liberalizzata, flessibile, secondo molti esperti potrà risollevarsi in fretta; ma si dimostra che le ricette miracolose non esistono. Lo strapotere acquisito da finanzieri e immobiliaristi ha indotto 2 anni fa il governo a un azzardato salvataggio delle banche di cui solo ieri il ministro delle Finanze Brian Lenihan ha riconosciuto l’errore: «Sì, le banche erano un problema troppo grosso per il paese». [S.L.]