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 2010  novembre 20 Sabato calendario

Intervista a Guccini - Ha appena compiuto 70 an­ni e non festeggia perché è un aedo- in un corpaccione rabe­laisiano - legato alle sue radici contadine

Intervista a Guccini - Ha appena compiuto 70 an­ni e non festeggia perché è un aedo- in un corpaccione rabe­laisiano - legato alle sue radici contadine. Per Francesco Guc­cini parlano la doppia antolo­gia Storia di altre storie e l’auto­biografia Non so che viso avesse . Qualche concerto ben dosato (il prossimo il 10 dicembre al Forum di Milano: lo aspettano almeno 12mila fan) e per il re­sto il buen retiro nel suo eremo di Pàvana, dove esplode tutta la sua sanguigna emilianità, an­che se siamo in Toscana. Qui, nella austera cucina della casa avita che risale al 1768, lo rag­giungiamo per scoprirne i se­greti. «Mia madre mi ci portò appena nato, dai nonni, per te­nermi lontano dalla guerra. Non c’era luce né riscaldamen­to, ma con i prodotti del nostro mulino (quello sul­la copertina di Radi­ci ) non ho sofferto la fame. Poi nel ’44 arrivarono gli ame­ricani che ci diede­ro una grossa ma­no, mi confeziona­rono anche una spe­cie di divisa per te­nermi caldo». E la frase «vi di­plomerò in can­ti e in vino in via Paolo Fabbri 43?». «I miei anni giova­nili a Bologna sono stati epici, ma le ra­dici sono qui. Lì da­vanti c’è il muro che cito in Quattro stracci , e poi qui han vissuto i perso­naggi più celebri dei miei brani». A esempio il frate? «Ah il Pieraccini, abitava qui vicino, beveva come pochi e raccontava certe balle... Ha fat­to di tutto nella vita, prima di morire era piastrellista. Un uo­mo d’altri tempi. Qui sotto abi­tava una prostituta e una notte lo sentii bussare alla sua porta e dirle in dialetto: “dài apri, ti pa­go con quella mortadella che ti piace tanto”. In questi tempi di corruzione marcia ricordarlo così è un soffio d’aria pulita». E il pensionato. «Il Mignani, un vecchietto che mi ha dato molti spunti». I suoi brani sono universa­li perché autobiografici? «Beh, sono stralci di vita. Mi ispiro a Borges che dice: un au­tore è sempre autobiografico, ma ci sono due modi per espri­­mere lo stesso concetto. Insom­ma il realismo magi­co. E poi García Márquez: Pàvana è la mia Macondo, non importa che esista o meno, ma c’è dentro tutta la mia vita». Il cantautore è poeta? «Non ha senso pa­ragonarli perché è diversa la tecnica compositiva. Anti­camente poesia e musica viaggiava­no insieme, oggi no, ma spesso sono altrettanto nobili, anche se i poeti si of­f­endono se parago­nati ai cantautori». Però molti suoi brani come Can­zone dei 12 mesi sono considerati poesie, e lei cita molto, da Cecco An­giolieri a Omar Kayyam fi­no a Gozzano ne L’isola non trovata . «Le mie influenze letterarie sono infinite. Partendo da Sal­gari son passato agli americani, Dos Passos, Faulkner, Caldwell e Bob Dylan, all’università gli italiani, in seguito Borges, e que­sto si riflette nelle canzoni». Poi è diventato scrittore. «Tra poco esce il mio nuovo giallo scritto ancora con Loria­no Macchiavelli». Giallista a pieno titolo... «Sono un romanziere. Da tempo volevo raccontare un fat­to accaduto a Pàvana tanti anni fa, la strana morte di un prete che era spesso ubriaco e che fu trovato annegato in un bottac­cio, che è il bacino d’acqua del mulino. Nessuno ha stabilito se sia stato incidente o omicidio». Guccini e il vino sono un classico dell’iconografia popolare, ma vedo che be­ve succo di frutta. «Non mi tiro certo indietro col vino, ma non sono un alcoli­sta. Oggi bevo meno, sul palco solo mezza bottiglia. Per noi il vino era poesia, oggi ci sono le discoteche o se va bene le enote­che, cioè le boutique del vino». Un altro classico è Guccini l’anarchico. «L’anarchia per me è una sim­­patia istintiva, un ideale liberta­rio che non può essere chiuso inun’ideologia.Anche se oggi i tempi di Bakunin son andati per sempre». E La locomotiva ? «Volevo ricreare l’atmosfera dei canti anarchici di Pietro Go­ri. La storia è vera, mi affascinò quando la lessi sul libro 30 anni di officina . Ci misi parecchio a scriverla, appunti su appunti, e la prima strofa la scrissi per ulti­ma, non mi veniva un buon at­tacco. Son fiero che Roberto Leydi l’abbia definita “la più bel­la canzone popolare del dopo­guerra” ». Da Pàvana come si arriva al successo? «Io non l’ho mai cercato. La mia prima chitarra l’ha costrui­ta un artigiano di Porretta. Son partito con uno stile cabaretti­stico alla francese che univa Brel e Brassens, cioè il lato satiri­co e serioso. Quando incisi Au­schwitz c’era un tecnico del suo­no in camice bianco­ poco do­po sarebbero arrivati quelli coi capelli lunghi e le camicie a fio­ri- e mi disse: “ma l’ha scritta lei questa roba? Che tristezza, cambi mestiere”». In un brano scrive che «il bere non si paga e non fa male»; e in un altro «voi preti che vendete a tutti un’altra vita/ se c’è come voi dite un Dio nell’infini­to, guardatevi nel cuore, l’avete gia tradito/ e voi materialisti col vostro chiodo fisso che Dio è mor­to e l’uomo è solo in questo abisso/ le verità cercate per terra da maiali/, tene­tevi le ghiande lasciatemi le ali». Che rapporto ha con Dio? «Sono agnostico, ma lascio una porta aperta, non si sa mai. È un peccato pensare che fini­sca tutto e poi non ci sia più niente».