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 2010  novembre 22 Lunedì calendario

IL NEO-COLONIALISMO AGRICOLO. LA CINA COMPRA TERRE IN AFRICA

Mo Ibrahim vive un’esistenza comoda in una villa nel sud della Francia, ma è un eroe africano del nostro tempo. Sudanese, cresciuto come esperto di telecomunicazioni, nella sua vita ha creato e poi venduto a metà dello scorso decennio (per circa tre miliardi di dollari) la più grande compagnia africana di telefoni cellulari.
A una recente conferenza a Marrakech, organizzata dall’Ifri di Parigi, Ibrahim ha riassunto la sua vita successiva in poche parole: «Ho deciso che non avevo bisogno di tutti quei soldi». Da allora la fondazione che porta il suo nome, nella quale collabora Kofi Annan, segue l’operato di tutti i governi del continente africano e li incalza sui principi e i valori che stanno all’opposto dell’esperienza coloniale: democrazia, trasparenza, responsabilità, impiego ragionevole e non banditesco delle risorse, responsabilità dei governanti nei confronti dei cittadini.
Ma quando alla conferenza di Marrakech qualcuno ha chiesto a Mo Ibrahim di pronunciarsi sul nuovo colonialismo della Cina in Africa, il più grande filantropo del continente ha preso in contropiede la sua platea in gran parte francese. «Sono le imprese europee che continuano a concludere accordi segreti con i capi di Stato africani — ha detto —. E perché concludere contratti con clausole segrete, se non per pagare tangenti ai vari governi?»
Il paradosso del neo-colonialismo è che la legislazione europea non obbliga le imprese a rendere note tutte le clausole dei loro accordi con i vari governi esteri, neanche in Africa. La legge negli Stati Uniti, almeno da qualche mese, invece sì. E per esempio Petrochina, la più grande impresa di Stato di Pechino e probabilmente la più ingombrante presenza neo-coloniale nel continente nero, è quotata anche a New York. Dunque deve sottostare alla legislazione statunitense. La Cina che estende la sua influenza industriale e commerciale in quasi tutta l’Africa, era il messaggio implicito di Mo Ibrahim, in fondo è una nuova potenza coloniale più accettabile di quelle vecchie.
Ovvio che la questione sia più complicata di così, specie quando il neo-colonialismo si esercita su una risorsa essenziale come il cibo. A maggior ragione lo diventa ora che lo spettro di una nuova crisi alimentare come quella del 2007-2008, quando si scatenarono sommosse in decine di Paesi poveri, non è più molto lontano. All’uscita dalla grande recessione nel mondo è tornato rapidamente uno squilibrio fra domanda e offerta di zucchero, soia, grano e altri cereali. Di conseguenza anche le quotazioni della carne e dei prodotti caseari stanno salendo a ritmi considerati imprevedibili fino a pochi mesi fa. Spinti dalla siccità in Russia e Ucraina quest’estate e dal maltempo e raccolti deludenti in varie altre regioni produttrici del mondo, i prezzi degli alimenti sono già fra il 40% e il 60% più alti di un anno fa. L’embargo russo sull’esportazione di grano, deciso in agosto, ha poi creato una reazione a catena. Anche l’Ucraina ha imposto un blocco parziale e questi vincoli hanno scatenato un’ondata di accaparramento da panico da parte dell’Egitto e dei Paesi petroliferi del Golfo. È così che un piccolo squilibrio fra domanda e offerta sta creando un vasto squilibrio nei prezzi. Quest’anno per la prima volta la fattura degli acquisti di derrate nel mondo supererà probabilmente la soglia psicologica di mille miliardi di dollari. L’indice Fao dei prezzi degli alimenti va verso i massimi raggiunti nel 2008: nel 2009 era a 52 punti, nell’ottobre 2010 è a 197.
La vicenda del 2007-2008 insegna cosa accade in queste circostanze: i Paesi che dispongono di forti capacità finanziarie tendono a passare alla terza fase della globalizzazione. È quella che Jacques Diouf, direttore generale della Fao, definisce il «neo-colonialismo». La storia degli ultimi anni quanto a questo non lascia dubbi, è una rete di conquiste di terra che può arrivare a coprire circa un quinto della produzione mondiale delle principali derrate. Qualche esempio? La Cina ha comprato e affittato a lungo termine vaste porzioni di terra in Camerun, Tanzania e Mozambico (per il riso), in Uganda e Zimbabwe (cereali) e poi ancora Filippine, Laos, Kazakhstan e una decina di altri Paesi. Il Kuwait ha scommesso sul controllo di intere provincie fertili della Cambogia o sugli allevamenti estensivi di pollame nello Yemen. Ma la potenza finanziaria forte più attiva su questo fronte, quello dell’accaparramento diretto della terra all’estero anziché dei suoi prodotti, è forse l’Arabia Saudita. Gli investitori di Riad hanno concluso accordi per centinaia di milioni di dollari e più spesso per miliardi in quasi tutto il mondo in via di sviluppo: dall’Etiopia all’Indonesia, da Pakistan alle Filippine. Paesi in preda alla malnutrizione, come il Sudan e la stessa Etiopia, sono diventati grandi esportatori di derrate di cui hanno perso il controllo.
L’obiettivo è sempre lo stesso: protezionismo, benché in una forma inedita ma in fondo antica. Le nuove potenze coloniali vogliono assicurarsi l’approvvigionamento diretto di cibo senza dover passare dai mercati globali. Anche questo può aiutare a prevenire impopolarità e rivolte fra i milioni di immigrati asiatici che costruiscono le nuove città del Golfo o fra le masse dei colletti blu cinesi. Il gruppo Tata, in India, calcola che queste strategie consentano alla Cina di pagare le proprie materie prime circa il 15% di meno. La Compagnia delle Indie, a ripensarci, non avrebbe saputo fare meglio.
Federico Fubini