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 2010  novembre 21 Domenica calendario

2 articoli – QUELLA TELEFONATA A CUCCIA: «LE SPIEGO IO LE CONVERTIBILI» - Ha sempre lavorato lontano dai riflettori, preferendo il backstage al palcoscenico

2 articoli – QUELLA TELEFONATA A CUCCIA: «LE SPIEGO IO LE CONVERTIBILI» - Ha sempre lavorato lontano dai riflettori, preferendo il backstage al palcoscenico. Non sono in molti a sapere cosa sia e cosa faccia e anche il nome può confondere, perché fa riferimento a un passato lontano. Eppure i 53 uomini d’ affari che il 22 novembre 1910 hanno dato vita ad Assonime in realtà avevano già guardato avanti, perché la denominazione depositata era stata «Associazione fra le società italiane per azioni», con acronimo Asia: ma le società anonime, di capitale, diventeranno spa solo dal 1942. E ora Assonime, che deve il nome «ufficiale» al codice che la identificava sui telefax, compie cento anni. Domani a Roma inizieranno le celebrazioni con la presentazione al Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, dei sei volumi dedicati ai contributi dell’ associazione a progetti di riforma su fiscalità d’ impresa, diritto commerciale, mercato dei capitali. Tecnocrazia - Sì perché Assonime, che oggi raccoglie 520 grandi imprese, è forse uno dei rari casi nel nostro Paese di tecnocrazia, di lobby "istituzionale" con uno scopo di fondo rimasto inalterato rispetto al «Progetto per costituire una Federazione fra le società anonime italiane» scritto nel marzo 1910: «Lasciare a ogni industria libere le sue direttive commerciali e industriali, occupandosi solo di quelle questioni e di quegli interessi che riguardano indistintamente tutte le società anonime». O per dirla con il direttore generale Stefano Micossi, Assonime «guarda all’ interesse generale delle associate, identificato nella costruzione di buone istituzioni per il mercato, cioè un ambiente favorevole all’ attività d’ impresa». Per certi versi un braccio tecnico e autonomo della Confindustria, dalla quale si distingue non solo per la diversa base di iscritti, le maggiori imprese di tutti i rami di attività, dalla manifattura alla finanza, ma per gli obiettivi che non sono sindacali bensì di elaborazione e influenza su aspetti che riguardano le regole. Tra l’ altro proprio la Confindustria attuale, non la iniziale federazione delle industrie del nord, prende forma nel 1919 negli uffici di Assonime, nel palazzo delle Generali in piazza Venezia. Roccaforte - Forse più di una storia sistematica, "raccontano" Assonime singoli episodi, alcuni dei quali riportati nei sei volumi. Uno di essi prende vita proprio a partire dalla sede, che negli anni del fascismo è di fronte a quella di Benito Mussolini. Considerata la vocazione tecnica, i rapporti con il regime sono diversi da quelli della Confindustria. Felice Guarneri, direttore generale di Assonime dal 1921, ha detto che l’ associazione è stata «una roccaforte inaccessibile perfino allo strapotere del partito». E solo nel 1942 Alberto Pirelli, presidente dal ’ 24, ritiene sia opportuno aggiungere la qualifica «fascista» al nome ma l’ integrazione, che in Confindustria risale al 1926, poi non viene eseguita. E lo stesso Pirelli, quando la Repubblica sociale dispone nel dicembre del ’ 43 il trasferimento a Milano di Assonime, continua a inviare a Roma messi con i soldi per pagare custodi e bibliotecari. Ma la «resistenza tecnica» si manifesta quando Salò vieta nel ’ 44 la distribuzione di dividendi agli ebrei. Assonime ingaggia una «guerra» a base di disquisizioni sull’ «intestazione» dei titoli, sul «certificato di stato civile» che «quando non arrechi l’ indicazione di appartenenza alla razza ebraica si intende che la persona è di razza ariana», insomma sui destinatari del divieto. Nel frattempo raccomanda agli iscritti di non distribuire dividendi punto. Diritto societario - E ancora è forse rintracciabile nella vocazione tecnocratica dell’ associazione un fatto che risale ai primi anni Sessanta. Siamo alla vigilia del centrosinistra, quando Assonime guidata dal direttore generale Luigi de Gennaro forma una commissione di studio per la riforma del diritto societario. Ci sono tutte le premesse perché l’ associazione eserciti una forte influenza sul governo e il presidente della commissione, Alfredo De Gregorio, diventa presidente dell’ organismo ministeriale che deve attuare il programma dell’ esecutivo sulla riforma. Eppure il progetto di Assonime, datato 20 ottobre 1964 e di ben 117 articoli, resta riservato. E giace negli archivi inedito fin quando non è «scoperto» dal giurista Piergaetano Marchetti che ne dà ampia descrizione nel quarto dei volumi per il centenario. Assonime vuole forse esercitare influenza ma evitare accuse di interferenze. La commissione del governo licenzia però nel ’ 65 un progetto che si differenzia non poco da quello di Assonime. E che non è mai diventato legge. La tecnocratica associazione ispira gli esecutivi talvolta anche suggerendo «compensazioni» rispetto a decisioni o provvedimenti. Così Gianni Toniolo e Fernando Salsano descrivono nel primo dei sei volumi due passaggi significativi in epoche lontane fra loro. Il discorso in Senato di Ettore Conti, presidente di Assonime nel ’ 22-24 ed esponente di spicco dell’ associazione: è una dura presa di posizione contro la rivalutazione della lira che Mussolini interpreta nella «Quota 90». Ma accanto al discorso Alberto Pirelli persegue l’ obiettivo, in parte raggiunto, di ottenere per gli industriali contropartite sul piano fiscale. E nel 1979, dopo che Assonime resta defilata sull’ adesione allo Sme, il presidente Emanuele Dubini ritiene necessario l’ afflusso di capitali esteri e chiede una liberalizzazione per «saldare» il nostro mercato con quelli degli altri paesi europei. La politica - L’ influenza di Assonime, che ha avuto fra i suoi presidenti supertecnici come Guido Carli e dal 2009 ha Luigi Abete, ha dunque attraversato la nostra storia sostenendo svolte come l’ istituzione della Consob e delle Authority. E affermando l’ associazione come interlocutore esperto dell’ élite non solo politica: è rimasta nella memoria di molti la telefonata fra De Gennaro ed Enrico Cuccia nella quale il primo dice al banchiere «ora le spiego cosa sono le obbligazioni convertibili». Forse, come dice Micossi, oggi è più difficile «il dialogo con la politica, meno attenta ai temi tecnico-istituzionali», vocazione dell’ associazione. Ma il suo lavoro di backstage è tutt’ altro che esaurito. Verso le proprie imprese, calate rispetto alle 2 mila dell’ 80 per «selezione» dopo l’ aumento dei contributi, e con le istituzioni. Italiane, ma sempre di più anche europee. Sergio Bocconi UN SECOLO DI CONTI E BILANCI, DAI DEBITI «AUTORIDOTTI» ALL’IPOCRISIA DEL VALORE DA CREARE - I mercati contemporanei, esuberanti e neoliberisti, hanno determinato l’ eterogenesi dei fini dell’ informazione finanziaria. Quantomeno dei fini dichiarati nel segno della trasparenza. E’ questa la morale di uno dei saggi più intriganti («L’ informazione finanziaria negli ultimi cento anni: un profilo storico»), pubblicati dall’ Assonime per il suo centenario. L’ autore è l’ economista Fulvio Coltorti. Capo storico di R&S, la società di ricerche e studi di Mediobanca, Coltorti può essere considerato la Cassazione dei bilanci. Queste le sue parole: «Si è tornati alle origini, quando occorreva essere veri specialisti per cavare dai bilanci pubblicati le informazioni rilevanti. Ma allora le informazioni scarseggiavano e si procedeva quasi al buio, mentre oggi sono financo eccessive e si rischia di finire accecati dalla stessa sorgente». La rendicontazione ha una lunga preistoria. In Italia, fino al 1973, quando venne introdotta l’ Iva, i bilanci erano per lo più falsi, perché il fatturato era spesso inferiore ai ricavi e ai profitti reali. Nel 1977, dei 118 gruppi non finanziari censiti da R&S, non più di 11 redigevano il bilancio consolidato. Fiat e Olivetti iniziarono nel 1981. Solo le banche creditrici sapevano, e ovviamente tacevano. La rottura del silenzio risale a 30 anni fa e si fa via via più rumorosa quanto più aumentano le transazioni, anche in virtù del collocamento in Borsa delle imprese pubbliche. Ma quella rottura, di per sé positiva, si accompagna a errori e distorsioni che, per usare lo schema caro a Marco Borsa, un grande giornalista scomparso caro a Coltorti, favorivano i venditori di titoli ai danni dei compratori. Talvolta le origini del malfatto possono sorprendere gli esterofili. Fu l’ Unione europea, per esempio, a cancellare l’ obbligo di allegare i bilanci di controllate e collegate e il dettaglio delle partecipazioni sotto il 5%, pur cruciali nei patti di sindacato. E a considerare attività le azioni proprie e i crediti verso soci per versamenti in conto capitale non ancora effettuati anziché poste negative del patrimonio netto. Ma la frusta della «Cassazione» si abbatte soprattutto sulla governance pro ciclica dei mercati finanziari e sulla manipolazione dei dati. La governance si articola in una catena di complicità: i revisori che certificano l’ osservanza dei principi contabili, le società di rating che assegnano il merito creditizio, gli analisti delle banche che trascurano sempre più il dato storico a favore di previsioni fondate su notizie ricevute dalle società, le banche che collocano, gli investitori istituzionali che infine comprano i titoli. La collusione della catena venditrice è alimentata dal fatto che i compensi di tutti derivano, direttamente o meno, dalla società emittente. Mentre la parte compratrice è guidata da money manager che entrano ed escono dal resto del sistema. Tra il 1998 e il 2003, rileva la Consob, su 23 mila report su società italiane, solo l’ 8% invita a vendere. Se la tendenza a prevedere l’ incerto invece di giudicare l’ accaduto è la prima, altre manipolazioni tendono ad addolcire le lezioni della storia, attenuando la percezione dei debiti ed esaltando quella dei patrimoni. Il divieto di compensare in bilancio le poste passive con le attive è stata una grande conquista del Codice del 1942, eppure dagli anni Ottanta in qua i grandi gruppi preferiscono comunicare, anziché i debiti finanziari, la posizione finanziaria netta data dal saldo algebrico tra debiti e liquidità, crediti finanziari e perfino giacenze di magazzino, come nel caso dei Ferruzzi. Che contestarono R&S e crollarono. Coltorti ricorda anche l’ insofferenza di Fiat e Olivetti sulle analisi rigorose del debito. Ma il bersaglio polemico più forte e fresco è l’ iscrizione degli attivi a bilancio secondo il fair value, il valore di mercato, che consente di cancellare gli avviamenti, ovvero il «di più» pagato sulle acquisizioni. Gli avviamenti, da ammortizzare, permettevano di far pesare, misurandola, la resa delle acquisizioni. Il fair value, calcolato dai professionisti nominati dal management, cancella questi ammortamenti. Tutto si fa in nome dello shareholder value. Che - beffa finale - le società unanimi teorizzano salvo non darne mai conto. Massimo Mucchetti