Gaia Piccardi, Corriere della Sera 21/11/2010, 21 novembre 2010
DA DETENUTA A PREDICATRICE, RINASCE MARION LA GAZZELLA
«Sono qui per dirvi che ho sbagliato. Senza gli errori che ho commesso, però, oggi non sarei la persona che sono. E non vi parlerei da questo palco, augurandomi che la mia esperienza sia d’ esempio per ciascuna di voi». Quando la nuova Marion Jones esce dai blocchi - ombretto leggero, capelli raccolti, quasi esile nel tubino nero dei grandi magazzini rispetto alla Wonder Woman gonfia di doping di Sydney 2000 - settemila mandibole smettono di ruminare bacon e frittelle, e quattordicimila occhi si puntano sulla donna che visse due volte, prima in pista e poi dietro le sbarre del carcere federale di Carswell (Fort Worth), condannata a 6 mesi per aver mentito all’ autorità federale Usa, ma evidentemente era necessario prendere la rincorsa da lontano e poi correre a perdifiato per affrontare dieci anni dopo questa Olimpiade pagana, ieri dagli studenti della high school più turbolenta di Dallas, oggi a Houston alla conferenza delle donne texane, domani in chissà quale prigione femminile d’ America, Marion la predicatrice laica ha sciacquato l’ anima alla lavanderia a gettone e adesso arringa le folle con il piglio con cui affrontava il tartan, riceve biscotti fatti in casa invece di medaglie, sul traguardo ha trovato Dio («Grazie a mio marito, Obadele Thompson») e una nuova missione: «Sono un essere umano che ha avuto tutto dalla vita, il successo sportivo, la popolarità, i soldi, e che poi ha perso tutto. Voglio marcare una differenza al positivo nel mondo in cui viviamo. Le vittorie nell’ atletica non ispiravano nessuno. La nuova Marion, sì». Benvenuti a casa Jones, nel Texas che non rinuncia alla pena di morte ma che sa perdonare la sua reproba pentita. Restituiti gli ori di Sydney, prese le distanze dal più clamoroso caso doping dello sport americano, chiesto scusa in diretta tv alla nazione e scontata la pena, Marion si è confessata nelle 213 pagine di una biografia accorata e furba, nella quale ci racconta l’ esperienza devastante dell’ isolamento («Quarantotto giorni durante i quali ho incontrato me stessa. Nessun conforto, nessun amico, solo molto tempo a disposizione per esplorare il mio mondo interiore: ecco perché sono arrivata a considerare il carcere una benedizione», spiega, ieratica, alle casalinghe disperate che hanno pagato 135 dollari per incontrarla) però non l’ autoboicottaggio del doping alla ricerca di un successo totalmente illusorio, «questo è un libro sul futuro e non sul passato» taglia corto l’ avvocato Nichols che la segue ovunque e che vorrebbe esportare il fenomeno Marion all’ estero, in Europa e poi in Asia, magari preceduto da un film sul quale Hollywood sta già ragionando. «Purché la storia non perda spontaneità - sottolinea lei -. Questa è la mia vita, sono le mie battaglie, e la storia non è finita: altri capitoli sono ancora da scrivere...». C’ è un aspetto di marketing imponente in questa vicenda che l’ America, con il suo innato talento nell’ elevare i fallimenti in business, sta trasformando nella buona parabola del 2010. E non è un caso che, dopo Marion, salga sul palco Leigh Anne Tuohy, l’ imprenditrice bionda che ha ispirato The Blind Side, un’ altra storia di riscatto piena di morale e sentimenti, il film che a marzo ha permesso a Sandra Bullock di vincere l’ Oscar. C’ è anche, però, in fondo a quello sguardo caldo da mamma (di Monty, 7 anni, Amir, 3, e Eva Marie, 1) che ha perso per strada tutto il furore delle stagioni dell’ atletica, una consapevolezza diversa, che la spinge ad affermare di credere nel destino e nel karma personale, nel libero arbitrio dell’ individuo e nelle scelte, parecchie sbagliate (sposare uomini deboli e aggressivi alla ricerca della figura paterna che le è sempre mancata, doparsi, mentire), di cui oggi si assume pienamente la responsabilità, «sono stata baciata da incredibili doti atletiche, correvo veloce, saltavo in lungo, ma vivevo dentro la nebbia», e se oggi che ci vede benissimo cerca anche di monetizzare (gli sponsor dei tempi gloriosi si sono volatilizzati e i costi della causa legale che l’ ha spedita all’ inferno le hanno prosciugato il conto in banca), be’ , questa volta non di reato si tratta. Fede, speranza, futuro, sono le parole-mantra che compongono il vocabolario di questa donna che, a 35 anni, è vecchia per lo sport (per appagare il bisogno di endorfine è tornata a giocare a basket, il primo amore al college: a gennaio firmerà il contratto per la prossima stagione, probabilmente ancora con le Shock di Tulsa, Oklahoma, di sicuro non al minimo sindacale come l’ anno scorso: 35.888 dollari) ma non per la vita, la sua stretta di mano ha acquisito morbidezza, il suo sorriso è più aperto («Vieni dall’ Italia? Hai figli?»), agli idoli sportivi che ammirava da ragazzina (Jackie Joyner-Kersee, la Marion Jones di Barcellona ’ 92 e Seul ’ 88, Jesse Owens, Wilma Rudolph) in galera ha affiancato Nelson Mandela («Leggere la sua biografia durante la detenzione è stato di grande aiuto, mi ha dato coraggio e perseveranza, quell’ esperienza così straordinaria è stata un’ eco costante nella mia mente: se ce l’ ha fatta Madiba posso riuscirci anch’ io, mi dicevo, ho la forza per attraversare il tunnel e andare oltre, inventarmi un’ altra Marion»), scoprendo di potersi irrobustire senza palestra e senza eritropoietina, uscendo da Carswell «magari non luminosa come un angelo come Mandela quando fu rilasciato da Robben Island, però in pace». Non menziona mai Barack Obama, che nel 2008 non potè votare in quanto priva dei dritti civili in seguito alla condanna («Ammiro il suo tentativo di cambiare gli Usa e credo che sia presto per giudicarlo, ma Obama è un contemporaneo, faccio fatica a considerarlo un modello da seguire...») né George W. Bush, al quale si rivolse al colmo della disperazione per chiedere la grazia, che le fu negata. Ha perso la spocchia della fuoriclasse con il motore truccato (e ci avevamo creduto, in quella Ferrari nera che probabilmente non avrebbe avuto rivali anche senza aiuti chimici, commettendo il peccato di bassa autostima di tanti altri campioni finiti nella polvere), ha guadagnato un’ umanità meno glamour, però più autentica. Vive a Austin, villetta middle-class nella zona residenziale. Con un marito, il terzo, e tre figli che non sanno nulla dell’ ottovolante su cui ha viaggiato mamma finora («Sono troppo piccoli per chiedere. Ma quando verrà il momento io e Oba li metteremo seduti e racconteremo loro tutto»), Marion ha finalmente imparato a fare la brava madre di famiglia («Poche cene fuori, e pensare che una volta, nello staff della campionessa miliardaria, c’ era chi faceva la spesa per me...»), va a messa ogni domenica, cita a memoria i versetti della Bibbia, non guarda più l’ atletica alla tv e fa una faccia un po’ così quando le si nomina Usain Bolt, l’ ultimo re della velocità: «Spero che si circondi delle persone giuste e che sia consigliato bene», si augura, forse per deformazione professionale. «Ciascuno di noi, nella vita, può scegliere. A me, per diventare veramente onesta, servivano il dolore e l’ umiliazione pubblica. Dal periodo più difficile della mia vita è cominciato il mio viaggio verso la libertà. Se con il mio esempio riuscirò ad aiutare anche una sola di voi, la mia esperienza avrà avuto un senso», dice alle signore texane che pendono dalle sue labbra l’ ex matricola n° 84868-054 della prigione federale di Carswell, la nuova Marion che fu condannata anche se non uccise nessuno, se non se stessa.
Gaia Piccardi